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domenica 28 aprile 2019
LA SPAGNA AL VOTO CON MOLTE INCERTEZZE
Quale Spagna avremo da Lunedì mattina, dopo che gli spagnoli avranno espletato il loro diritto di voto, per la terza volta negli ultimi 4 anni? La campagna elettorale non ha assolutamente dissipato i molti dubbi che aleggiano sul voto per le legislative. Il primo punto interrogativo, e non potrebbe essere altrimenti, riguarda sicuramente la unica vera novità di queste elezioni e cioè la sorprendente ascesa di Vox, la formazione di estrema destra, che dopo avere ottenuto un clamoroso successo alle elezioni in Andalusia, secondo i sondaggi sembra destinato ad un altro clamoroso risultato anche a livello nazionale. Qualche sondaggista addirittura arriva a pronosticare per la formazione di Abascal oltre il 15 % dei consensi, che lo farebbe diventare la terza forza del paese, dopo i socialisti e i popolari. Non è un caso che Sanchez abbia concluso la sua campagna elettorale paventando proprio il rischio di avere un governo con una maggioranza di ultradestra. I popolari dal loro canto, per bocca del proprio leader Pablo Casado, hanno chiaramente fatto intendere la loro intenzione di aprire ad un ingresso nel governo di Vox. Abascal, infatti, ha avuto buon gioco ad approfittare delle tante debolezze dei rivali. I socialisti, in primis, che malgrado siano in testa nei sondaggi, sono ben lontani dall' avere i numeri per governare da soli, e perciò devono di nuovo misurarsi nella estenuante ricerca di un compromesso da un lato con Podemos e dall'altro con i riottosi partitini catalani. Sanchez ha provato in tutti i modi ad uscire da questa impasse, ma la sola alternativa che avrebbe, cioè quella di governare con Ciudadanos del ex enfant prodige Rivera, sembra avere davvero pochissime chance di realizzarsi. Troppa acredine anche a livello personale divide i due rispettivi leader per sperare che tutto possa ricomporsi per formare un governo insieme. Ma anche dalle parti dei popolari la situazione non pare certo tranquilla. Il leader dei popolari non riesce a bucare e a conquistare gli elettori, i tanti piccoli scandali che si sono rincorsi intorno alla sua figura e a quella di alcuni maggiorenti del partito hanno tarpato le ali ad una possibile piena vittoria del partito. Per non parlare poi di Podemos, del tanto discusso Iglesias, che pare aver perso molto smalto da quando pareva destinato davvero a diventare il nuovo leader spagnolo. Ma la sua smodata ambizione e qualche scandalo di troppo gli hanno tolto lucidità e consensi. Nel 2015 con il suo rifiuto di fare il governo con i socialisti, infatti, praticamente consegnò il governo in mano alla destra, per poi dopo soli due anni e mezzo accasarsi con gli stesi socialisti, ma in una chiara posizione di maggiore debolezza. E questi mesi di governo insieme a Sanchez sono sembrati davvero un calvario, molto simile a quello che si sta vivendo con il governo gialloverde in Italia. Simile situazione sembrano vivere gli “arancioni” di centro di Ciudadanos, ancora alla ricerca di un loro “ubi consistam” chiaro e definito. La parabola del suo leader Rivera assomiglia in maniera quasi speculare a quella del leader di Podemos, anche se le posizioni sono chiaramente divergenti su moltissimi aspetti. Dopo l'exploit del 2015 anche per lui è cominciato, infatti, un periodo di stallo, che rischia ora di metterlo in una posizione marginale nel nuovo scacchiere politico. La repentina ascesa di Abascal poi non ha fatto altro che togliere ulteriore spazio mediatico e importanza a chi pensava di poter rappresentare una valida alternativa al tradizionale bipartitismo spagnolo. Ecco allora che le incertezze, che hanno portato il paese al voto, rischiano paradossalmente di essere, se possibile, amplificate proprio dal risultato delle urne. I sondaggi, infatti, che danno i socialisti in testa con circa il 28, 8 %, i popolari con il 18% , Podemos con il 13%, Ciudadanos con il 14%, accreditano Vox del 12,8%, ma sono molti che temono l'effetto Le Pen, ossia che si possa ripetersi quello accaduto nel 2002 nelle elezioni presidenziali in Francia, quando la destra di Le Pen sorprendendo tutti riusci a conquistare il ballottaggio con Chirac. I sondaggi, infatti, spesso tendono a sottostimare, per molti motivi, le formazioni troppo estreme, come quella di Abascal. A vedere le folle oceaniche che hanno stipato le piazze e i palazzetti dello sport, per assistere in giro per la Spagna, ai comizi del suo leader, pare proprio che la eventualità, paventata da molti, che Vox possa arrivare ad essere la terza forza del paese, sia assai più concreta di quanto emerga dai sondaggi. Resta da vedere poi come conciliare le idee di Abascal con quelle di Rivera, senza il quale appare difficile poter arrivare ad una maggioranza per governare. Ma qui, come già accaduto in Andalusia, potrebbe rimetterci lo zampino uno degli storici ex leader del Partito Popolare, quel Josè Maria Aznar, che dopo un lungo periodo di assenza, pare essersi ritagliato il ruolo di eminenza grigia della politica di centro destra. Gli scenari perciò che si stagliano all'orizzonte sono per ora piuttosto nebulosi, ma certamente da Lunedì prossimo, comunque vada, tutti dovranno fare i conti, volenti o nolenti, con il battagliero piccolo “Salvini” basco, e con il suo partitino, che, nato da una costola del Pp, può davvero ritagliarsi un ruolo da protagonista nel futuro della politica spagnola.
venerdì 12 aprile 2019
GAMING UN SETTORE IN CRESCITA
Mentre slitta al 18 Aprile il Consiglio dell'Agicom l'esame sulle linee guida del divieto alla pubblicità da parte dell'industria del gioco, come stabilito con il decreto dignità dello scorso anno. Può essere interessante dare una scorsa alla situazione della industria del gambling, che dovrebbe avere ricadute pesanti da questa stretta su pubblicità e sponsorizzazioni. L’industria del Gioco italiana, infatti, è formata da oltre 6mila imprese. Quest’ultime sono principalmente attività connesse con le lotterie e le scommesse, tra cui gestori di sale da gioco online, sale bingo e casinò (56,1%); gestori di apparecchi che consentono vincite in denaro funzionanti a moneta o a gettone (29,9%) e ricevitorie del Lotto, Superenalotto e Totocalcio (11,1%). Da un punto di vista geografico si evidenzia una distribuzione vicina al 50% delle imprese nel Meridione (il 37,1% nel Sud e il 12,9% nelle Isole). La Campania è la regione con la più alta densità di imprese con circa il 21,3%, seguono Lombardia (11,8%), Lazio (11,6%), Sicilia (11,1%), Puglia (8%), Piemonte (5,3%) e Veneto (5,1%). La distribuzione provinciale conferma ulteriormente la forte concentrazione nel territorio campano: Napoli è la prima provincia in assoluto con il 12,3% delle attività, seguono distaccate Roma (9%), Milano (4,4%), Salerno (4,2%), Palermo (4%), Caserta (3,1%) e Bari (3%). Il tessuto imprenditoriale è formato per poco meno della metà, il 46,1% del totale, da società di capitali. Tra quest’ultime il 45,3% sono società a responsabilità limitata, di cui il 2,6% hanno un unico socio. Oltre nove aziende su dieci sono microimprese (91,3%), ossia con un fatturato che non eccede i 2 milioni di euro annui e con meno di 10 dipendenti. Entrando nel dettaglio la media dipendenti del settore, infatti, è di 4,2 dipendenti. Nove aziende su dieci (circa 88,6%) impiegano meno di cinque dipendenti, il 6,5% ne impiega fino a dieci, mentre solo il restante 0,5% impiega più di cinquanta lavoratori.
Infine sul fronte delle performance economiche secondo una ricerca ICRIBIS, azienda e commerce di ricerca e reportistica sulle aziende, si evidenzia come il 29,1% abbia un fatturato inferiore ad un milione di euro: il 6,8% si attesta nella fascia inferiore ai 50.000 €, il 5,6% tra 50.000 – 99.999 €, il 14% in quella 100.000 - 499.999 € e il 2,7% nella fascia 500.000 - 999.999 €. Poche le realtà che si attestano nella fascia 50.000.000 - 99.999.999 € (0,1%) e in quella superiore a 100 milioni di euro (0,2%). Infine secondo un report di Gaming report, l’industria del gambling ha migliorato il proprio fatturato nel 2018, nonostante appunto il provvedimento legislativo del nuovo governo e tutte le polemiche da esso derivate. Il volume di gioco, infatti, ha raggiunto per la prima volta nella storia la cifra di 107,3 miliardi di euro, circa 5 in più rispetto al 2017. Decisivo senza dubbio il rafforzamento del settore e la stretta sull’illegalità, che ha fatto confluire le puntate degli italiani all’interno del circuito legale. Il maggiore beneficiario di quest’incremento è stato lo Stato, che ha incassato 9,9 miliardi di euro dalla filiera. Numeri questi che dimostrano che il settore è dinamico ed in costante crescita, malgrado il nostro paese non sembri poi cosi amante del gioco come qualcuno vuol far credere. Gli italiani, infatti, hanno speso in giochi e scommesse in media l’1,86% del proprio reddito, con la percentuale più alta registrata in Campania (3,3%) e la più bassa in Trentino Alto Adige (1,1%). E’ quanto emerge da un’analisi condotta da Agimeg come detto sugli ultimi dati diffusi dal Ministero delle Finanze– relativi alle Dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche (Irpef) e dichiarazioni IVA per l’anno di imposta 2017 – incrociati con la spesa nei giochi per l’anno 2017 dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e con il numero di occupati certificato dall’Istat. Il quadro che emerge sembrerebbe smentire l’allarmismo, alimentato dalla politica con campagne di attacco nei confronti del gioco, per quanto riguarda la diffusione e la pericolosità di giochi e scommesse: nell’anno di riferimento, infatti, ogni italiano lavoratore, che ha un reddito medio di 20.670 euro, ha speso nel gioco circa l’1,8% del proprio reddito complessivo. Dall’analisi emerge che appartengono al Sud le regioni con la percentuale di spesa maggiore per il gioco, mentre la spesa è più bassa la Centro-Nord: la Campania guida questa speciale classifica con il 3,3%, seguita dalla Calabria con il 3,1% e dalla Puglia con il 2,9%. Subito fuori dal podio il Molise con il 2,76% e poi un’altra regione meridionale, la Sicilia con il 2,70%, tallonata dall’Abruzzo con il 2,69%. Le grandi regioni italiane, come Lombardia e Lazio, sono invece sotto la media nazionale, rispettivamente con una percentuale dell’1,5% e dell’1,7%. Numeri contenuti anche per l’Emilia Romagna (con l’1,5%) e ancor di più il Veneto (appena l’1,2% del reddito). Da notare che ben 12 regioni su 20 (il 60%) fanno registrare un’incidenza della spesa nel gioco sul reddito inferiore al 2%.
vcaccioppoli@gmail.com
venerdì 5 aprile 2019
PER LA LEGA OCCORRE UN CAMBIO DI PASSO
“Tanto
tuonò che alla fine piovve” si potrebbe chiosare così, per
commentare il momento di evidente leggero appannamento della Lega e
del suo” capitano”. La incredibile macchina da guerra
comunicativa del segretario delle Lega pare essere entrata in crisi,
come gia sbandierano ai quattro venti i giornaloni. Forse parlare di
crisi appare un po' azzardato, però in effetti, dopo l' ennesimo
trionfo elettorale in Abruzzo, qualcosa è cambiato. Il grandissimo
impatto emotivo suscitato dal ministro verso la sua base elettorale,
ha cominciato a mostrare qualche piccolo segnale di cedimento Niente
di preoccupante per carità, qui si parla di spifferi, se paragonato
a quello che e successo e sta succedendo negli altri (ex) grandi
partiti. I sondaggi premiano sempre il partito e il suo leader, ma è
indubbio che l'onda di urto dei giorni scorsi, dove pareva che
Salvini potesse conquistare il mondo come un moderno Alessandro
Magno, ha perso parte della sua veemenza. Questo può avere sia cause
esogene, su cui la Lega poco può fare e sia cause endogene, dove
invece qualche scelta o atteggiamento politico possono aver incrinato
la luna di miele del partito con gli elettori. Per prima cosa occorre
dire che un leggero calo nei consensi era nello stato delle cose e
anche fisiologico, considerando che in un solo anno la Lega ha più
che raddoppiato i propri consensi. Adottando un termine borsistico si
può dire forse che la lega sia entrata in una fase di leggero
“ritracciamento”, che avviene sempre quando appunto un titolo
dopo una salita vertiginosa nelle quotazioni, ha un leggero calo.
Sempre utilizzando il gergo borsistico bisogna vedere se in questo
caso si possa parlare appunto di semplice rallentamento, che prelude
ad un ulteriore allungo oppure di una brusca frenata. Detto questo
bisogna con spirito critico analizzare i fattori che possono aver
influito nell' arrestare la corsa dei leghisti. Indubbiamente
l'atteggiamento degli alleati di governo, i 5 stelle, dopo aver
subito quasi passivamente per mesi l'ingordigia (in tutti i sensi
visto i post rilasciati dal capitano in ambito culinario) di Salvini
nel suo ruolo dell'uomo forte al comando, hanno deciso per un
radicale cambio di rotta, rialzando la testa, sia sul piano delle
proprie battaglie politiche personali e sia criticando, nemmeno
troppo velatamente e a più riprese alcune scelte del ministro e
della Lega, come nel caso del tanto contestato congresso sulla
famiglia a Verona oppure nel caso del memorandum sulla via della
seta, in cui la posizione defilata del ministro degli Interni ha
lasciato grande visibilità a Di Maio, proprio verso quella parte
dell'Italia che produce, che dovrebbe invece rappresentare lo zoccolo
duro del voto leghista. La continua polemica fra i due alleati di
governo comincia insomma anche a nuocere alla Lega stessa. Alcune
polemiche sui social hanno mostrato poi per la prima volta il fianco
alle critiche proprio sul campo di “battaglia” dove la “bestia”
( cosi viene denominato lo staff di Luca Morisi, vero uomo ombra
della comunicazione social di Salvini), da molti vista come la vera
arma in più del “capitano”. Paradossalmente poi il fatto che la
questione migratoria sia un po' uscita dai radar dell'opinione
pubblica, grazie proprio alla politica del ministro degli Interni, ha
contribuito a togliere un argomento da sempre decisivo alla macchina
del consenso Salviniana. E poi come non citare la sempre maggiore
visibilità raggiunta dalla Meloni, che dopo aver superato come
considerazione nel campo del centro destra proprio presso lo stesso
Salvini, ora da abile stratega sta lavorando da tempo sottotraccia
per togliere parte del consenso proprio alla Lega. La Meloni,
infatti, come si è visto in molte delicate questioni, parte dal non
trascurabile vantaggio di essere libera da coinvolgimenti con il
governo e quindi dalla sua posizione di opposizione può giocare
facile nel soffiare sul fuoco della sempre piu tangibile
insoddisfazione dei cittadini, in una situazione economica che
comincia a scricchiolare nuovamente. Anche a livello europeo la
stessa Meloni pare aver compiuto dei passi importanti verso nuove
alleanze, dove invece la Lega pare incontrare qualche resistenza fra
il fronte dei cosiddetti sovranisti. Forse in questo Salvini e la
Lega hanno poche colpe, se non quella di una leggera
sottovalutazione, ma dare meriti più che altro alla indiscutibile
abilità e capacità di leadership della Meloni, che sempre più sta
mostrando di essere pronta al grande salto verso incarichi di
rilevanza. Infine in questi giorni è arrivata la polemica del
governo verso il blindatissimo ( dal Qurinale) ministro dell'economia
Tria sulla questione dei rimborsi ai truffati dalle banche. La
questione è delicata assai e la polemica rischia di invischiare
sopratutto la Lega in una polemica che potrebbe portare dopo le
elezioni a decisioni clamorose con la sostituzione dello stesso
ministro. Questo significherebbe oltre alle prevedibili tensioni con
il Colle e sopratutto sui mercati finanziari, anche una
responsabilità come partito a cui verrebbe offerto ( come una
polpetta avvelenata ) un ministero diventato sempre più caldo, visto
le incombenze finanziarie che aspettano il nostro paese da qui
all'autunno. Non è un caso che uno dei più strenui difensori dello
stesso Tria sia stato proprio il sottosegretario Giorgetti, che ben
conosce le dinamiche che aspettano il nostro paese nei prossimi mesi
e che sicuramente pensa che una rivoluzione al ministero sia inutile
oltre che dannosa. Ecco perchè alla Lega da qui alle elezioni
europee si chiede un cambio di passo. Salvini è troppo intelligente,
astuto e lungimirante per non rendersi conto di essere entrato in una
sorta di cul de sac con i suoi scomodi alleati. Per mesi ha avuto
gioco facile a lavorarli ai fianchi e contribuire a inglobarli con la
sua politica comunicativa forte e facendo leva sulle paure legate
alla immigrazione clandestina e alla criminalità. Ma adesso bisogna
voltare pagina ed occuparsi delle molte questioni legate alla
difficile situazione economica del paese, che dalla politica dei
continui no del movimento di certo non può trarre giovamento. Perchè
è sulle questioni economiche che si gioca la partita e su queste
questioni la gente si aspetta molto più dalla Lega, che dal
movimento 5 stelle, che come si sa ha una idea di rilancio del paese
che cozza non poco con quello che pensano, non solo economisti e
parte produttiva del paese, ma anche sicuramente con quello che pensa
la maggioranza dell'elettorato della Lega, che proprio dalla parte
più produttiva di questo paese, ha preso negli anni linfa vitale,
sotto forma di consenso, per arrivare al governo del paese. Il nuovo
DL sulla crescita è sicuramente un buon punto di partenza da cui
ripartire, ma quello che deve cambiare sopratutto per la Lega è un
atteggiamento più attento ai problemi e meno alle beghe interne di
una maggioranza fino a qui troppo litigiosa.
martedì 2 aprile 2019
AAA MINISTRO DEGLI ESTERI CERCASI
Raccontano che nei corridoi della
Farnesina, sede del ministero degli Esteri in questi mesi anche i
sindacati interni, da sempre piuttosto combattivi per perorare le
cause dei propri associati, siano entrati in una sorta di apatia e di
atteggiamento attendista. Forse perchè come spiega qualche dirigente
di lungo corso, anche loro si sono resi conto di una sorta di
mancanza di interlocutori con i quali portare avanti le proprie
istanze. Ed effettivamente bisogna dire che il ministro degli esteri
Moaveri Milanesi non può essere certo annoverato fra i ministri più
presenzialisti sulla scena politica nostrana, anzi probabilmente la
gran parte dei cittadini nemmeno sa chi sia a ricoprire un simile
ruolo nel nuovo esecutivo. In tutte le questioni in cui comunque un
ministro degli Esteri dovrebbe far sentire la sua voce o comunque
giocare un ruolo, l'attuale ministro degli Esteri si è, infatti,
distinto proprio per la sua quasi totale assenza sulla scena,
lasciando le luci della ribalta al premier e ai suoi due attivissimi
vice. Si ricordano, infatti, già diverse missioni all'estero del
vicepremier Di Maio, altrettante dell'altro vicepremier Salvini, ma
in ognuna di esse brillava per la sua assenza proprio il titolare del
dicastero della Farnesina, che sembra non gradire oltre che il
presenzialismo nemmeno troppo i viaggi, che per un ministero come il
suo sembra a dir poco un paradosso. Nessuno ricorda una sua presa di
posizione su questioni delicate che sono sicuramente di sua
pertinenza, come la crisi del Venezuela o la situazione migratoria, o
la crisi con la commissione Europeo in occasione della approvazione
della nuova manovra finanziaria, o ancora nella querelle con la
Francia, per finire con i recenti colloqui con la Cina per la firma
del memorandum sulla via della Seta. Le voci raccontano che il
ministro sia mal sopportato sia dai 5 stelle, ma sopratutto dai
leghisti e per questo sia stato messo all'angolo e pregato di non
disturbare il manovratore. Troppo compromesso con i “poteri forti”,
troppo vicino al tanto odiato professore Monti. Nel governo in realtà
nemmeno ci sarebbe dovuto entrare. Gli esteri , infatti, sarebbero
dovuti essere appannaggio dell'ambasciatore di lungo corso Luca
Giansanti. Ma all'ultimo momento come già accaduto per l'ambasciata
di Parigi nel 2018, il suo nome è stato cancellato. Secondo i bene
informati pare che questa sia stata una richiesta esplicita del
Colle, che voleva a capo della Farnesina un europeista convinto,
dopo il suo rifiuto di Savona all'economia proprio per la opposta
ragione. Nato a Roma il 17 agosto 1954, Moavero Milanesi è un
giurista e avvocato. Tra le sue esperienze più significative
moltissime sono legate all'Unione europea e alle sue istituzioni. Un
profilo sicuramente gradito a Bruxelles, dunque, e che può vantare
ottime relazioni in ambito comunitario. È stato giudice di primo
grado presso la Corte di giustizia dell'Unione europea, in
Lussemburgo. E ha ricoperto il ruolo di collaboratore della
Commissione europea come direttore generale del Bureau of European
Policy Advisors. Viene definito da molti come il braccio destro di
Mario Monti: ha accompagnato l'ex presidente del Consiglio in molte
delle sue esperienze politiche (in Italia e in Europa) ricoprendo
sempre ruoli di grande rilievo nei gabinetti guidati dallo stesso
Monti. È stato professore di diritto comunitario alla Sapienza e
alla Luiss, a Roma. Nel suo curriculum anche la direzione della
School of Law della Luiss, dove ancora insegna così come a Bruges,
dove ha completato i suoi studi. Insomma sicuramente un curriculum di
tutto rispetto, ma certo non ha le caratteristiche che si possano
attagliare ad un governo gialloverde. Forse per questo allora che i
due vicepremier cercano di fare come se alla Farnesina il posto fosse
vacante e si occupano loro a turno degli affari esteri, lasciando al
ministro il disbrigo delle pure formalità e qualche sporadico
commento. Come non notare la sua quasi totale assenza di
dichiarazioni o di interventi durante la grave crisi diplomatica fra
Francia ed Italia a seguito delle dichiarazioni dei grillini sul
franco francese prima e poi sopratutto con l'incauto incontro fra Di
Maio e Di Battista con l' ala più dura dei gilet gialli francesi. In
una intervista recente al Corriere della Sera, una delle rare che si
ricordino, lo stesso ebbe a commentare che era normale che di alcune
questioni se ne occupassero Salvini e Di Maio. Però insomma, se si
analizzano bene le cose, non pare tanto normale che una crisi
diplomatica grave e seria con un alleato storico come la Francia non
sia materia di pertinenza di un ministro degli Esteri. Considerando
che in quella occasioni si arrivò anche al richiamo della
ambasciatore francese in patria. Si fa fatica a capire come un
ministro degli Esteri non abbia gestito in nessun modo una simile
delicata questione. A meno che questo suo atteggiamento cosi ”
distaccato” non sia solo dovuto alla presunta ostilità nei suoi
confronti di Lega e 5 stelle, ma sia stato creato ad arte da lui
stesso e dal suo entourage ( professore Monti in testa, che ancora
mantiene uno stretto legame con il minsitro ) per mostrare un certo
disaccordo con la linea di politica estera, e non solo, del governo.
Certo è che alla lunga questa situazione di un ministro cosi
importante svuotato dalle sue funzioni potrebbe danneggiare
l'immagine del nostro paese e a lasciare il fianco alle critiche di
chi considera questo governo come in una perenne guerra con il mondo.
Forse il ministro è sopportato o forse è lui che preferisce
defilarsi, ma sicuramente questa situazione non gioca a favore della
considerazione internazionale del nostro paese e rischia di metterci
in imbarazzo come nella questione del Venezuela, quando non si
riusciva a decifrare dove effettivamente fosse schierato il governo,
con Salvini sostenitore di Gaudio e delle elezioni e i 5 stelle
fautori di un lento processo elettorale, senza condannare Maduro. Non
vorremmo insomma mai dover rimpiangere il suo predecessore, che ne
siamo certi, se non altro per il suo pittoresco inglese, avrà
lasciato un simpatico ricordo fra gli ambienti diplomatici
internazionali.