LA CINA È LA DITTATURA SOCIAL
All'inizio di dicembre, in mezzo alle crescenti tensioni tra Australia e Cina, il primo ministro Scott Morrison ha pubblicato una dichiarazione sulla piattaforma di social media cinese WeChat per esprimere la sua indignazione per un tweet incendiario di un portavoce del ministero degli Esteri cinese. Entro un giorno, WeChat, che controlla regolarmente i contenuti sensibili sulla sua piattaforma, aveva bloccato la posta di Morrison, apparentemente per aver violato le politiche dell'azienda. Non è stato l'unico caso in cui un funzionario straniero è stato censurato su una piattaforma di social media cinese. Gli autori di reato più importanti sono WeChat, il più grande sito di social media in Cina, con oltre 1 miliardo di utenti attivi, e Weibo, una piattaforma di microblogging simile a Twitter. Siti come questi sono l'unico modo per i governi stranieri e i loro diplomatici di raggiungere il pubblico cinese online, poiché il cosiddetto Great Firewall blocca l'accesso a quasi tutte le piattaforme di social media straniere, inclusi Twitter e Facebook. Ecco che alla luce di quello accaduto con Trump, che dopo i fatti di Capitol Hill è stato bandito da tutti i principali social, la questione pone parecchi interrogativi a riguardo, che dovrebbero far riflettere molto chi ha applaudito a prescindere la decisione dei colossi del tech di censurare quello che è ancora il presidente americano in carica. La censura dei contenuti esteri in Cina non è una novità, ovviamente, ma la portata e la frequenza della pratica sono aumentate negli ultimi anni. Un rapporto del 2018 dell'Australian Strategic Policy Institute ha evidenziato numerosi esempi, in particolare nel maggio 2018, quando l'ambasciata degli Stati Uniti in Cina ha emesso una risposta su Weibo alla richiesta di Pechino che le compagnie aeree straniere identificassero Taiwan, Macao e Hong Kong come "territori cinesi". Il post dell'ambasciata, che criticava le "sciocchezze orwelliane" della Cina, è rimasto visualizzabile su Weibo ma solo per gli utenti con un collegamento diretto. La funzione di condivisione è stata disattivata e le risposte sono state accuratamente adattate per includere solo quelle che riflettevano la posizione del governo.
I DIPLOMATICI CENSURATI DAI SOCIAL CINESI
Il 2020 è stato forse l'anno peggiore per i funzionari stranieri che hanno cercato di trasmettere il loro messaggio direttamente al popolo cinese. Quando lo scorso giugno sono scoppiati violenti scontri lungo il confine cinese con l'India, la dichiarazione del primo ministro Narendra Modi sulla questione è stata rimossa da WeChat. Allo stesso modo, la confutazione dell'ambasciata britannica in Cina alle affermazioni dei media statali cinesi sulle proteste a favore della democrazia a Hong Kong è stata ritirata. Questa tendenza recente indica "un approccio molto più assertivo in generale da parte di Pechino, che è coerente con l'approccio sempre più assertivo della Cina al mondo in generale negli ultimi due anni, su molti fronti", ha detto Josh Kurlantzick, senior fellow per il sud-est asiatico al Consiglio per le relazioni estere. Ma quello che accade in Cina da anni mette appunto in primo piano la questione dell’ informazione e dell’uso che di essa viene fatta sui e dai social e del loro controllo, che in Cina è operato da un governo che certo non si può definire liberale, mentre negli Usa sta diventando sempre piu una questione di pochi privati, che possono arrogarsi il diritto di decidere autonomamente cosa è conveniente che venga pubblicato o cosa non lo sia. La questione non è tanto nel merito, perché si può sicuramente e anzi si deve censurare comportamenti che possono istigare alla violenza o a qualsiasi forma di pregiudizi di razza, genere o sesso, ma che a farlo siano dei privati cittadini e non una autorità terza è questione che rischia di assimilare democrazie avanzate come quella americane o quelle europee a regimi certo non democratici come appunto quello cinese. La capacità unica del governo cinese di controllare i contenuti su Weibo, WeChat e altre piattaforme ha permesso un potere di controllo su ciò che le ambasciate e i governi stranieri possono dire in Cina, pur avendo libero sfogo all'estero, dove il proprio personale deve affrontare poche restrizioni a ciò che può dire su Twitter e Facebook ( già proprio gli stessi social che invece hanno censurato e bandito dalle proprie piattaforme il presidente americano). Fino a poco tempo, questa asimmetria non era una delle principali preoccupazioni, semplicemente perché la presenza della Cina sulle piattaforme dei media stranieri era minima. Ma negli ultimi anni Pechino ha compiuto uno sforzo concertato per espandere il proprio raggio d'azione su Twitter. Come ha documentato il ricercatore francese Antoine Bondaz, il numero di account Twitter detenuti da diplomatici cinesi è cresciuto di quasi quattro volte tra luglio 2019 e luglio 2020, da 38 a 151. Oggi, centinaia di diplomatici cinesi, ambasciate e personale dei media statali pubblicano regolarmente contenuti su Twitter e Facebook come parte di un'operazione di propaganda sempre più sofisticata. L'anno scorso, teorie cospirative sulle origini della pandemia COVID-19 sono apparse frequentemente su account del governo cinese verificati, come quando Zhao Lijian, un portavoce del Ministero degli Affari Esteri cinese, ha affermato senza fondamento su Twitter che l'esercito americano avrebbe potuto portare il coronavirus a Wuhan. Ma chiaramente questi post non sono stati censurati dai colossi del tech, al contrario di molti di Trimp, anche prima dei tristi fatti legatio all’assalto del Campidoglio. Forse perche, a pensare maliziosamente, il mercato cinese è troppo importante per loro per rischiare di mettersi contro il governo cinese e subire certe ritorsioni sul piano economico. Il governo degli Stati Uniti non ha il potere di costringere Twitter o Facebook a rimuovere i post dall'ambasciata cinese a Washington, né può contestare le azioni di Weibo o WeChat in Cina. Per molti anni l'ambasciata degli Stati Uniti a Pechino è stata la fonte più affidabile di dati sull'inquinamento atmosferico nel paese, mentre le ambasciate canadese e svizzera hanno ospitato artisti di fama mondiale come Ai Weiwei, che altrimenti non sarebbe in grado di esporre pubblicamente le sue opere a causa del suo passato critiche al governo cinese. Ora però proprio il gran proliferare dei social e della comunicazione sempre piu diffusa sulle loro piattaforme anche di comunicazioni politiche e diplomatiche ha dato alla censura cinesi un nuovo e prezioso alleato. In risposta alle pressioni per diventare più dure sui funzionari cinesi, Twitter e Facebook sono diventati più attivi nella rimozione delle reti di bot pro-Cina e ora etichettano il governo cinese, i media statali e gli account diplomatici come tali. Alcuni legislatori americani hanno chiesto di andare oltre, sostenendo che se Pechino bloccasse alcune piattaforme di social media, quelle stesse piattaforme non dovrebbero consentire ai funzionari del governo cinese di creare account.
CENSURA A DOPPIO BINARIO
Eppure i leader delle società tecnologiche statunitensi sembrano riluttanti a fare un passo del genere, o persino a controllare i contenuti di diplomatici stranieri e organi di stampa. Finora solo un paese ha deciso di combattere il fuoco con il fuoco. Dopo gli scontri al confine di giugno, l'India ha bloccato più di 200 app cinesi, tra cui WeChat e Weibo. Ma Nuova Delhi non può impedire ai funzionari cinesi di continuare a diffondere disinformazione su Twitter e Facebook all'interno del Paese. Ecco perché la mossa di Twitter e Facebook rischia di rappresentare l’ennesima dimostrazione di quanto la censura da parte di questi colossi del tech non sia tanto mossa da questioni etiche o morali ma più che altro da business e da convenienza propria. E poi ricevere lezioni morali da chi ha permesso lo scoppio dello scandalo di Cambridge Analitycs sembra una sorta di paradosso, oppure solo una questione di ipocrisia bella e buona.