sabato 28 dicembre 2019

ITALIANI IN VENEZUELA FORSE QUALCOSA SI MUOVE

E' da tempo che non si parla più di Venezuela e della sua gravissima crisi istituzionale ed economica, che dal 2013 ha letteralmente messo in ginocchio uno dei paesi più ricchi del Sudamerica, grazie alle sue ingenti riserve petrolifere. Il regime di Chavez prima e del suo sodale Maduro poi hanno contribuito a portare il paese allo stremo e sull'orlo della guerra civile. La scarsa attenzione dei mass media non vuol certo dire che la crisi sia stata superata o che la popolazione si trovi in condizione migliori, anzi la situazione forse si è pure deteriorata in questi ultimi mesi. Nel paese, infatti, si registra una vera e propria crisi umanitaria, con milioni di persone ridotte allo stremo, che cercano, in tutti i modi, di lasciare il paese, che non è più grado di fornirgli beni di prima necessità, come cibo e medicine. All'inizio di novembre, i rifugiati e i migranti venezuelani nel mondo risultano essere circa 4,6 milioni. Quasi l’80 per cento si trova in Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, senza alcuna prospettiva di fare ritorno, nel breve o medio periodo. Se le tendenze attuali non cambiano, entro la fine del 2020 potrebbero essere 6,5 milioni i venezuelani ad aver lasciato il Paese. E non potrebbe essere altrimenti, considerando che  a seguito della grave recessione economica, il 94% della popolazione venezuelana, circa 30 milioni di persone, vive in uno stato di insicurezza alimentare e l’82% non ha accesso a fonti di acqua sicure. Le condizioni di salute hanno raggiunto livelli altrettanto allarmanti, con un tasso di mortalità materna che sfiora il 65%, per la mancanza di strutture sanitarie e pratiche igieniche adeguate. In questa situazione a dir poco tragica devono convivere anche circa 140.000 nostri connazionali, che avrebbero tutti i diritti giuridici e legali per poter fare ritorno in Italia. Eppure le difficoltà burocratiche che si incontrano negli uffici diplomatici a Caracas e a Maracaibo, come ci racconta un dirigente della Farnesina ,sono enormi e ritardano od impediscono la svolgimento delle pratiche necessarie all'espatrio. “I tempi di attesa per il rinnovo del passaporto sono minimo ad un anno. I dipendenti sono cinque e devono fare un lavoro enorme, anche perché le richieste sono tante. Ogni anno vengono rilasciati circa 30.000 passaporti, ma le richieste sono tre o quattro volte superiori”. Non a caso, il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (CGIE) ha stabilito in assemblea plenaria (lo scorso 16 novembre 2018) di esigere dalle Autorità Italiane competenti la creazione del “Progetto di Accoglienza per Connazionali in rientro da territori di provata crisi umanitaria” che preveda la “semplificazione burocratica nel riconoscimento delle Certificazioni documentali possedute” (es. patenti di guida, titoli di studio) e “una maggiore facilità ad accedere al mondo del lavoro in Italia”. Questo perché ogni cosa come detto, richiede tempi lunghissimi e difficoltà difficilmente superabili per chi magari ha un reddito di pochi euro al mese. Dall’omologazione di un titolo di studio, alla conversione della patente di guida o al semplice rilascio della carta d’identità, tutto diventa una via crucis per chi ha lasciato l’Italia e ha bisogno di tornare. Lo ha confermato il segretario generale del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (CGIE), Michele Schiavone: “Ci sono diverse migliaia di nostri connazionali, non solo dal Venezuela, in particolare dall’America Latina, che quando rientrano in Italia hanno difficoltà ad acquisire la documentazione necessaria per il soggiorno in Italia e a regolarizzare la loro posizione. Per questa ragione il CGIE è interessato a regolarizzare questa situazione di criticità, affinché anche i nostri che intendono rientrare non corrano il rischio di rimanere emarginati nella società italiana”. Il capo delagazione di Fratelli di Italia ha portato la questione anche al parlamento europeo, cercando di sensibilizzare le istituzioni di Bruxelles, su un problema che riguarda chiaramente non solo gli italiani, ma anche molti altri paesi europei, come la Spagna per esempio, che rappresenta la prima comunità estera in Venezuela. Proprio grazie al partito di Fidanza, Fratelli di Italia, alcuni emendamenti alla nuova manovra di bilancio potrebbe rappresentare un primo passo importante per  dare un po' di sollievo a queste centinaia di migliaia di connazionali all'estero in difficoltà. Nel contesto della Manovra di bilancio, infatti, sono stati approvati dal governo due emendamenti alla legge di Bilancio proposti appunto da Fratelli d’Italia: il primo permette di concedere il permesso di soggiorno umanitario ai venezuelani che hanno già fatto richiesta di cittadinanza italiana dal Venezuela e sono in attesa di risposta, e il secondo mette a disposizione 1 milione di euro da utilizzare tra il 2020 e il 2021 per velocizzare l’attività di riconoscimento delle pratiche di cittadinanza dei venezuelani. “Abbiamo risposto con i fatti, oltre che con le parole”, ha evidenziato il senatore Giovanbattista Fazzolari, firmatario della proposta che ha avuto l’approvazione dal governo e che sarebbe un’iniziativa senza precedenti nella storia italiana. “È anche importante perché indica un cambio di marcia, un’attenzione agli italiani nel mondo, che finora ne hanno avuta ben poca”, ha aggiunto. Si tratta di un primo piccolo passo, ma in un paese da sempre molto diviso sulla necessita di accogliere o meno i migranti, sembrava doveroso pensare anche a chi avendo tutti i diritti legali e giuridici desidera di fare ritorno in patria per necessità. La sensazione che si ha altrimenti è appunto quella di voler strumentalizzare la questione dei migranti a puri scopi politici. Il milione di italiani residenti in Venezuela forse grazie a questo emendamento non si sentiranno più come cittadini di serie B e non avranno la sensazione  di essere stati trascurati dai vari governi che ultimamente si sono avvicendati a Roma. Perché lì probabilmente non avranno ancora dimenticato la visita della delegazione 5 Stelle, guidata dell’onorevole Manlio Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri, arrivata a Caracas nel 2017 per dare il proprio sostegno al regime di Maduro. Fu conclusa da un surreale pellegrinaggio alla tomba di Chávez. Lo stesso sottosegretario cinquestelle che ancora qualche mese fa definiva Guaidò, esponente della opposizione al regime Maduro, come un “golpista”. Fa specie che la politica nostrana pare ricordarsi degli italiani all'estero solo in occasione delle elezioni, quando si tratta di eleggere i loro rappresentanti al parlamento. Qualcuno invece, almeno per una volta senza nessuna finalità elettoralistica, ha voluto far sentire la propria vicinanza a chi in questo momento si trova in una situazione di forte disagio e vorrebbe rifarsi una vita nel paese che ha dato a loro o ai loro genitori i natali. Anche perché se da tempo ci si lamenta della fuga di cervelli dal nostro paese, che contribuiscono ad impoverire il materiale umano del paese, il rientro di tanti connazionali, che comunque si erano integrati in altri paesi, potrebbe rappresentare un valido surrogato a questa “emorragia umana” ed essere un punto di partenza per la ricostruzione di uno spirito ed una identità nazionale troppe volte dimenticate da chi in Italia ci vive e allo stesso tempo rimpiante invece da molti nostri concittadini all'estero.

venerdì 13 dicembre 2019

OCCORRE RIPRISTINARE FINANZIAMENTO PUBBLICO AI PARTITI..?

La recente questione della fondazione Open con tutto quello che ne è conseguito, ha riportato al centro del dibattito politico una questione che pareva essere uscita dai radar della opinione pubblica. E cioè il sistema legale e legittimo dei partiti di trovare finanziamenti per poter fare la propria attività. Fare politica ha un costo, e mentre prima i movimenti politici si organizzavano, economicamente e logisticamente, unicamente attraverso i partiti, ora il numero di soggetti coinvolti si è moltiplicato. 

Dalle fondazioni politiche, alle associazioni, passando per gruppi parlamentari e think tank, la galassia di strutture che svolgono attività politiche sono aumentate. E aumentando le componenti sono aumentati anche i problemi del finanziamenti di queste strutture. Con la riforma del 2013 sotto il governo Letta in Italia è stato progressivamente eliminato il finanziamento pubblico diretto ai partiti. Questo consisteva principalmente nei cosiddetti rimborsi elettorali, che sono stati definitivamente aboliti nel 2017. Una forma di finanziamento, collegata alle tornate elettorali, in cui lo stato versava ai singoli partiti una somma di denaro calcolata, tra le altre cose, in base al risultato elettorale raggiunto. Dopo l’approvazione della legge i finanziamenti pubblici ai partiti si sono più che dimezzati. Ma il problema è rimasto tale e quale sul piatto. Perché è indiscutibile che fare politica costa e anche tanto. Per trovare fondi i partiti hanno allora cercato di rinforzare altro strumenti leciti, come per esempio la donazione del 2x1000 delle dichiarazioni dei redditi.  

Ma il problema per il 2x1000, oltre ad essere poco utilizzato dai contribuenti, è che parliamo di cifre basse rispetto a quelle che possono essere le esigenze dei partiti. Secondo recenti dati della fondazione Openpolis nel 2018 l'ammontare di soldi ricevuti dai partiti italiani tramite il 2x1000 è persino calato, passando dai 15,3 milioni del 2017 a 14,1 milioni di euro. Esiste poi il contributo degli eletti, che varia da partito a partito, ma che ha, come visto anche nel caso dei 5 stelle, dei problemi dal punto di vista organizzativo e dell’impegno che poi i singoli eletti hanno nel rispettare questo accordo ( Forza Italia recentemente ha dovuto adottare misure coercitive per recuperare quanto dovuto da alcuni suoi eletti). E poi questo meccanismo favorisce sicuramente i grandi partiti a scapito di quelli più piccoli. Non solo per l’ammontare dei contributi dei singoli eletti, ma anche perché  avere più eletti significa anche più contributi ai gruppi parlamentari. Una forma di finanziamento pubblico, pari a 53 milioni di euro annui, che non è stata intaccata dalle riforme degli ultimi anni. Occorre allora trovare soluzione alternative, la prima è sicuramente quella di affidarsi ai finanziamenti da parte dei privati. 

Ma come visto con la fondazione Open questo apre una serie discussioni sulla trasparenza degli stessi e sulle regole da adottare per far si che questi non siano poi elargiti per avere un tornaconto. Negli anni abbiamo visto la crescita di think tank, fondazioni e associazioni politiche legate a questo o quel partito, ma anche a singoli parlamentari. Queste strutture sono diventate delle realtà parallele ai partiti, sfruttate dagli stessi per portare avanti una serie di attività: dalla raccolta fondi, alla formazione politica, passando per l'organizzazione di correnti. L’ascesa politica di Matteo Renzi e della sua fondazione Open ne è stato un perfetto esempio. Una struttura parallela al partito di appartenenza, in questo caso il Partito democratico, utilizzata per raccogliere fondi, organizzare eventi e aggregare la base elettorale. L'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti ha quindi contribuito alla frammentazione degli attori politici, penalizzando indirettamente la trasparenza del sistema. Penalizzando, soprattutto, il tema dei finanziamenti, ora più complesso da ricostruire, e particolarmente propenso ad essere raggirato. In poche parole togliere il contributo pubblico ai partiti ha permesso il proliferare di tutta una serie di finanziamenti da parte dei privati sicuramente più difficili da controllare e da monitorare. Molte fondazioni, non quella di Renzi, non pubblicano nemmeno i bilanci, perchè nessuna legge le obbliga a farlo. Si capisce bene in queste condizioni come possa essere garantita la trasparenza di fondi che dovrebbero finanziare esclusivamente la mera attività politica dei partiti. Può essere utile allora dare un occhiata a cosa succede negli altri paesi europei sul tema finanziamento ai partiti. 

In  Francia esiste un finanziamento pubblico dei partiti che consta in una parte proporzionale al numero dei voti ottenuto al primo turno delle ultime elezioni legislative. Requisito per l’accesso al contributo è che il partito abbia presentato candidati in almeno 50 circoscrizioni che abbiano ottenuto almeno l’1% dei voti espressi in tali circoscrizioni. La seconda è proporzionale al numero dei parlamentari, a condizione di avere i requisiti previsti per accedere alla prima frazione. In Germania è previsto  un contributo proporzionale ai voti ricevuti , pari a 0,85 euro per ogni voto valido, fino a 4 milioni di voti e a 0,70 euro per ogni voto ulteriore ottenuto da ciascuna formazione nelle ultime elezioni per il Bundestag, per il Parlamento europeo e per i Parlamenti dei Länder ed un ulteriore un contributo calcolato sulla quota dei contributi versati da privati, pari a 0,38 euro per ogni euro che il singolo partito abbia ricevuto come donazione o a titolo di quota di iscrizione da una persona fisica. In Spagna si hanno addirittura cinque forme di finanziamento pubblico dei partiti: le sovvenzioni a titolo di rimborso delle spese elettorali, le sovvenzioni statali annuali per le spese generali di funzionamento, le sovvenzioni annuali stabilite dalle Comunità autonome e, se del caso, dagli enti locali, per le spese generali di funzionamento nel proprio ambito territoriale; le sovvenzioni straordinarie per la realizzazione di campagne di propaganda in occasione dello svolgimento di referendum ed infine le erogazioni che i partiti possono ricevere dai gruppi parlamentari delle Camere, delle Assemblee legislative delle Comunità autonome e dai gruppi di rappresentanza negli organi degli enti locali. La Gran Bretagna come spesso accade fa storia a se perchè il finanziamento pubblico ha un ruolo marginale rispetto agli altri paesi europei. Fatta eccezione per le forme di incentivo finanziario destinate a tutti i partiti e ad alcune agevolazione sui servizi dal 1975 i contributi statali sono riservati ai partiti di opposizione (Short Money Grant). Questo perché si presuppone che servano a compensare quei vantaggi che il partito di maggioranza trae dalla disponibilità dell'apparto di governo. Poi però esiste la possibilità per i privati di finanziare sia partiti che singoli parlamentari nella massima trasparenza e legittimità.  Come si può vedere in ogni paese è presente una forma di finanziamento pubblico dei partiti sotto forma di rimborso elettorale o di contributo per svolgere la propria attività. 

In Italia la montante aria di antipolitica, generata da troppi di casi di cattivo utilizzo dei contributi politici da parte di partiti e parlamentari ha permesso che si arrivasse al paradosso di gettare via il bambino con l’acqua sporca. Occorre perciò una serie riflessione sull’argomento per dare seguito al dettato dell’articolo 49 della Costituzione e non rischiare di creare invece un sistema che rischia di essere peggiorativo rispetto al finanziamento pubblico. Bisognerebbe invece sedersi ad un tavolo e pensare a nuove forme di finanziamento che abbiano  regole ferree e rigidi controlli su ogni singolo euro che va al finanziamento dei partiti, per evitare quelle commistioni ed intrecci fra interessi privati e la politica. Il tema è delicato ma prima o poi bisognerà pure affrontarlo

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