giovedì 30 gennaio 2020

GLOBALIZZAZIONE NASCE DOPO LA CADUTA DEL MURO


A poco meno di due mesi dalla celebrazione dei trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, un interessante saggio a cura di Carlo Fidanza capodelegazione di Fratelli d’Italia al parlamento europeo e di Francesco Borgonovo caporedattore della Verità, riporta alla luce con contributi, tra gli altri, di Francesco Alberoni e Giulio Tremonti, la contraddizione che sarebbe nata con la caduta del muro, data che coincide con l’inizio della dissoluzione del blocco comunista sovietico e all’inizio di una nuova era. Ma come dice Giorgia Meloni, nella prefazione del libro, dopo il crollo del muro di Berlino l’Europa ne ha costruiti altri “non per difendere i propri popoli, ma per separare la sua burocrazia dai popoli stessi.” Come per esempio, dice sempre la leader di Fratelli di Italia, la dittatura finanziaria che sarebbe un muro alla sovranità politica. Ecco allora perché secondo Francesco Borgonovo la caduta del muro avrebbe precipitato il resto dell’Europa e dell’Occidente in una sorta di stato del “dopo orgia”. Il crollo del muro, infatti, avrebbe rappresentato la fine di tutti i limiti e di tutte le barriere. Ma questo non avrebbe solo connotazioni positive, perché se è vero che esso ha rappresentato un grande momento di liberazione per milioni di europei costretti ad uno stato di costrizione da una autorità onnipresente, ha determinato la creazione di altri “muri” che controllano le vite delle persone, in maniera anche maggiore di quello che faceva la terribile “Stasi”tedesca o il Kgb sovietico. “ Senza i muri la civiltà non esisterebbe. Perchè i muri proteggono la civiltà, permettendo loro di svilupparsi e prosperare”. Ogni civiltà antica si è sviluppata grazie alla creazione di barriere e di muri per contrastare l’avvento di altri popoli e l’arrivo di altre usanze ai loro occhi diverse e pericolose. Senza i muri non ci sarebbero state molte delle invenzioni culturali, artistiche e filosofiche che sono arrivate fino ai giorni nostri. Il pensiero che potrebbe sembrare paradossale, fa leva sulla convinzione che oggi il mondo vive in un perenne stato di insicurezza determinato dalla mancanza di punti fermi, di confini che il mondo globalizzato ha spazzato via.  La creazione del web ha amplificato a dismisura questo processo, insieme alla nascita del WTO nel 1994 che ha sancito di fatto la nascita dell’unione economico, monetaria e finanziaria. In Europa poi la caduta del muro ha contribuito a far cadere quelle difese che il mondo occidentale aveva contro la eccessiva burocratizzazione dei regimi sovietici, burocrazia che ora invece non appare più come un nemico e questo nuovo stato di animo ha permesso alla Unione Europea di prendere, propria con la sua rigida burocrazia, il sopravvento sulla sovranità nazionale degli Stati. Questa è l’idea di fondo del partito che un po' sprezzantemente vine definito dei “ sovranisti” che però sta conquistando sempre più consenso in Europa, come dimostrato ultimamente con il caso eclatante della Brexit. “ La globalizzazione ci ha indotti a mettere da parte la nostra cultura millenaria per prendere acriticamente tutto ciò che veniva da fuori”. Il muro metaforicamente sarebbe come il simbolo, con la sua caduta, del passaggio tra la difesa delle identità nazionali e la uniformità della globalizzazione. La caduta del muro quindi ha al suo interno molte contraddizioni, non ultima quella che non viene celebrata come dovrebbe, almeno da una buona parte di una sinistra che fatica ancora a fare i conti con il suo scomodo passato. Nel pensiero generale però, come lamenta Carlo Fidanza questa data del 9 Novembre non viene tanto considerata come la fine di un regime totalitaria e per questo non viene festeggiata perché comunque “una data scomoda” per molti che al mondo comunista anche oggi sono in qualche modo legati. Ma in effetti, come dice Giulio Tremonti, questo evento non ha al suo interno solo caratterizzazioni simboliche positive. Perchè, come spiega nel libro, la caduta del muro non solo ha rappresentato la fine del comunismo, ma anche la del liberalismo, sostituti dal “mercatismo”. Il 9 Novembre, infatti, che definisce come la data madre, sono state poste le basi del nuovo ordine mondiale. “ A fine esercizio il comunismo è riuscito a trasportare nel campo opposto, nel dominio del mercato, il suo dna. L’idea che la vita degli uomini sia mossa o possa essere mossa da una legge.” E questa legge è quella del profitto e delle regole dettate dal mercato globalizzato. Il mercato come base totalitaria del pensiero unico.  Insomma quello spirito di libertà che ha portato i popoli dell’ex blocco sovietico a ribellarsi all’idea che le loro vite potessero e dovessero essere controllate dalla legge suprema del regime, si è diluito a poco a poco ed ha generato la disillusione di aver perso la sfida, con la perdita della propria identità e libertà in nome delle regole stabilite dalla globalizzazione e dalla uniformità che il mercato ci impone.

lunedì 27 gennaio 2020

IL DOLCE SAPORE DELLA SCONFITTA

Il centrodestra non è riuscito a dare la spallata forse decisiva al governo Conte. È Indubbio che il tentativo di Salvini spesosi come non mai in queste elezioni sia fallito. Sull'Emilia, malgrado si presentasse come una partita assai complicata, il leader leghista si è giocato molto. E senza probabilmente la novità della sardine la situazione, chissà, sarebbe potuta veramente  cambiare a suo favore come molti sondaggi pronosticavano. Ma con i se e con i ma non si fa la storia. Ormai è andata ed occorre voltar pagina. Fin dall'inizio di questa dura ed estenuante campagna elettorale per stessa ammissione del leader leghista, è parso chiaro che la contesa riguardasse lui e il governo Conte. Tutto il resto, compreso gli alleati e la sua stessa candidata presidente Borgonzoni, semplice contorno o strumenti per raggiungere il suo fine. Stefano Bonaccini rappresentava, infatti ai suoi occhi un bersaglio minore che una volta caduto avrebbe trascinati con sé tutto il PD e quindi il governo Conte, Tutto ciò era forse dettato anche dalla necessità di rafforzare la sua posizione, in leggero declino dopo la crisi di governo, sia all’interno della Lega stessa e sia soprattutto verso la coalizione di centrodestra e in particolar modo verso l'alleato più “pericoloso” in termini di consenso e cioè Giorgia Meloni. 
La Lega  è un partito molto particolare sia per come è nato e sia per questa sua nuova veste più nazionale e istituzionale. La sua base rimane quella della concretezza, e della fedeltà ai suoi valori ma anche molto attento alle gerarchie interne e fedele a chi si dimostra un condottiero di successo. E stato così per tanti anni con Bossi ed ora la cosa si sta ripetendo con il suo erede. La stessa politica del partito che si basa sulla esasperazione a volte dei temi ha bisogno più di altri del consenso e del successo. A Bossi bastava quello della sua gente del Nord, Salvini ha operato la grande trasformazione verso la Lega nazionale. Ma il compito chiaramente si complica. Certo che  per ora appare come una sorta di eresia discutere un leader come Salvini, capace di  portare in poco tempo la Lega dal 7% a diventare il primo partito italiano con oltre il 30% dei consensi.
 Ma paradossalmente tutto questo successo potrebbe anche averlo reso troppo sicuro di sé ( come potrebbe dimostrare proprio il caso Emilia) e far crescere comunque qualche malcontento, per ora tenuto sottotraccia, da parte di alcuni suoi maggiorenti di partito.Questa sconfitta piuttosto netta rischia infatti, di creare ulteriore malumore che va immediatamente soffocato sul nascere. E per fare questo occorre rimettersi di buona lena al lavoro magari, dopo magari aver fatto anche un piccolo bagno di umiltà, per tornare a vincere in occasione delle prossime elezioni previste per primavera. La sconfitta si sa rende il sovrano più debole e maggiormente attaccabile non solo dai nemici, ma anche dai tanti che teramano nelle retrovie perché aspirano in qualche modo a più potere o addirittura al suo stesso “trono”
. Ma mentre sul nemico continuano ad esistere grandi interrogativi sulla sua reale forza, considerando  che lo stesso  Zingaretti, nella notte post voto nel suo primo commento a caldo, ha candidamente riconosciuto il determinante ruolo che le sardine hanno avuto nella vittoria. Insomma non proprio una grande dimostrazione di forza, dopo che lo stesso leader volontariamente si è tenuto bene alla larga dalla campagna elettorale in Emilia Romagna, fatto più unico che raro nella lunga storia repubblicana di questo paese. Ecco allora che forse, stante la impossibilità per ora di andare al voto, e considerando che la sua leadership all interno della Lega appare ancora ben salda, le sue preoccupazioni maggiori forse potrebbero riguardare i suoi alleati di coalizione, Silvio Berlusconi ma sopratutto Giorgia Meloni. Anche perché occorre dirlo fin da subito, ancora una volta se c è chi può dirsi ben soddisfatto del voto sia in Emilia che in Calabria è forse proprio fratelli d'Italia. Il partito della Meloni sembra confermarsi, infatti, anche nella rossa Emilia come il terzo partito ed in Calabria conquistare la stessa percentuale di voti supergiu della Lega. Ecco perché siamo certi che questa sconfitta probabilmente avrà un retrogusto molto meno amaro di quanto che potrebbe apparire per i vertici di fratelli d'Italia che indubbiamente vedono inevitabilmente crescere il loro peso specifico. Salvini non potrà più alzare troppo la cresta in tema di candidature come fatto prima del voto, sia con la Puglia che con la Campania. La sua aurea di invincibilità è stata scalfita e questo avrà la conseguenza di dover essere maggiormente accondiscendente con chi, come Giorgia Meloni sta sopportando pazientemente le sue ripetute “scorribande” solitarie ( candidature voto Gregoretti legge elettorale  maggioritaria)  ma che presto potrebbe anche chiederne conto. La situazione è ancora molto fluida con il governo che dovrebbe rafforzarsi, anche se rimane aperto l'enigma di cosa potrà fare un movimento cinque stelle disperato e ormai dissolto sia come forza politica che come movimento stesso ma ancora con un peso specifico importante nella maggioranza. Certo è che osservando la situazione che potrebbe crearsi nei due schieramenti ormai polarizzati si potrebbe commentare che  alle volte certe sconfitte potrebbero alla lunga avere più valore di certe risicate vittorie.

venerdì 17 gennaio 2020

ITALIA REPUBBLICA GIUDIZIARIA..?

Ha suscitato un nuovo focolaio di polemiche la recente decisione della consulta di bocciare il referendum proposto da otto consigli Regionali e sostenuto dalla Lega per abrogare la quota proporzionale nel sistema elettorale a vantaggio di un maggioritario puro. Salvini non ha perso l'occasione per gridare allo “scandalo e alla vergogna” definendo la decisione come un “furto di democrazia”. Parole certamente forti e inequivocabili, forse dettate anche dall'avvicinarsi di fondamentali elezioni per il rinnovo del governo in Calabria e soprattutto nella rossa Emilia. Ma al di là delle polemiche di parte occorrerebbe a mente fredda fare una valutazione sul ruolo che i giudici e la magistratura hanno avuto sulla vita politica italiana, da mani pulite in avanti. In questi giorni si è celebrata la ricorrenza del ventennale della scomparsa di Bettino Craxi, uno dei massimi simboli di quella triste stagione politica. Ancora adesso a vent'anni dalla scomparsa di quello che nel bene e nel male è stato uno dei massimi esponenti della politica italiana della prima repubblica, qualcuno non perde occasione per ricordare i trascorsi giudiziari dell’ex presidente del Consiglio, come se la sua parabola politica fosse ristretta unicamente a quanto emerso dall'inchiesta “mani pulite”. 
Dal 1992 in poi i tempi della politica, infatti, quasi inesorabilmente sono stati scanditi dalle inchieste e dalla azione della magistratura. L'ascesa e la caduta di Berlusconi sono state in qualche modo accompagnate dalle innumerevoli inchieste giudiziarie a suo carico. Il suo alleati e poi “avversario” Gianfranco Fini e stato spazzato via proprio da una inchiesta giudiziaria sulla controversa questione della casa a Montecarlo. Lo stesso eroe di Mani pulite Antonio di Pietro è stato colpito da diverse inchieste sul poco chiaro utilizzo che il suo partito avrebbe fatto dei fondi pubblici ad esso destinati. 
Adesso “obiettivo”delle inchieste sembra essere diventato il nuovo mattatore della politica italiana Matteo Salvini. Ma anche su altre questioni più strettamente politiche, come per esempio quella del fine vita i giudici hanno mostrato di volere quantomeno  indirizzare una politica forse un po troppo titubante e poco incisiva. Ora la magistratura sembra giocare un ruolo sempre più ingombrante anche sul delicato argomento della legge elettorale. La questione pare delicata perché se da un lato mostra tutte le inadeguatezze di una politica troppo litigiosa e che non sa dare le risposte che il paese richiede, dall'altro manifesta come la suddivisione dei poteri rischi di essere diventato un confine sempre più labile e sottile. Troppe volte cambi nella composizione di governi locali e nazionali sono stati decisi da inchieste giudiziarie, ancora prima che esse arrivassero alla definitiva sentenza. Se quindi pare esagerato forse definire la ultima decisione della consulta come un “furto di democrazia” sarebbe ora però che si operasse una discussione scevra il più possibile da polemiche di parte sui ruoli che lo Stato di diritto affida ai suoi poteri rappresentativi. 
Anche perché occorre aggiungere che anche grazie a questa “commistione”  sono spesso scoppiati scandali che hanno coinvolto a vario grado  magistrati proprio per il loro poco chiaro legame con apparati dello Stato, come quello recentissimo che ha coinvolto il giudice  Palamara e parte del Csm. Il potere politico se troppo mischiato con quello giudiziario, infatti, rischia di creare un corto circuito dei principi dello stato di diritto, che basa proprio sulla separazione dei tre poteri fondamentali esecutivo legislativo e giudiziario. In Italia ormai a dettare le regole del gioco e non solo della politica, sembrano essere più i giudici con le loro inchieste che i rappresentanti del popolo democraticamente eletti. 
Questo perché il nostro è forse l'unico paese democratico ad avere una parte della magistratura  fortemente politicizzata. In nessun altro paese due ex magistrati infatti, hanno fondato un partito. In nessun altro paese esistono delle “correnti”  all'interno della magistratura stessa, come si trattasse di un partito qualsiasi. I magistrati non devono fare politica così come i politici non devono entrare nel merito delle sentenze giudiziarie. Troppi magistrati rincorrono la celebrità con roboanti inchieste che poi spesso si traducono in un nulla di fatto. E troppi politici credono di poter trovare nella magistratura una sponda da utilizzare a fini politici. Di tutto ciò sicuramente è colpevole la politica in primis, che ha mostrato tutti i suoi limiti nello svolgere quella che è la sua funzione legislativa, certa stampa sempre pronta a cavalcare e ad enfatizzare alcune inchieste giudiziarie e anche di certa magistratura, che evidentemente si sente stretta nel suo ruolo  giurisdizionale e si arroga il diritto di sostituire la politica nelle sue inefficienze. Ultimo esempio lampante di ciò trova chiara raffigurazione nella inchiesta sui presunti finanziamenti illecito ricevuti dalla fondazione Open, scoppiata con una tempistica quantomeno dubbia proprio all'indomani della uscita di Matteo Renzi dal PD. Detta inchiesta ad oggi risulta essere senza nessun rilievo penale per l'ex presidente del Consiglio, ma è indubbio che il clamore suscitato dalla cosa abbia sicuramente nuociuto a lui e al suo nuovo partito. Con questo chiaramente nessuno si deve sentire immune dalle inchieste e dal lavoro della magistratura, ma è indubbio che questo deve anche riguardare le cautele e le attenzioni che ogni indagine giudiziaria comporta per legge per tutti. “ la legge e uguale per tutti” non deve rimanere una effige appesa sui muri di tutti i tribunali, ma deve essere un sacrosanto diritto, che non sempre trova riscontro nel nostro paese. In questo ambito va compresa  anche la tanto discussa legge sulla prescrizione, affinché non rischi di diventare una ulteriore arma in più in mano a chi già utilizza la giustizia per compiti non consoni a quelli dettati dalla costituzione, soprattutto se non si mette mano alla questione non più procrastinabile dei tempi biblici della giustizia italiana.
Per sgomberare il campo da polemiche, dibattiti e tensioni di cui il nostro paese certo non ha bisogno,servirebbe allora una chiara e definitiva presa in carico delle proprie responsabilità che ognuno ha nello svolgimento della propria funzione. La politica faccia le leggi e la giustizia si occupi di farle rispettare. Così funziona nella principali democrazie di tutto il mondo, un po meno ultimamente in Italia. 

mercoledì 15 gennaio 2020

LE IMPRESE NON PAGHINO IL CONTO DEL GREEN DEAL

Finalmente il tanto decantato new Green Deal della nuova commissione Europea comincia a prender corpo. La Commissione europea, infatti, ha presentato martedì 14 gennaio l'atteso progetto di Fondo per una transizione equa che dovrebbe contribuire a facilitare tra il 2021 e il 2027 il percorso verso la neutralità climatica entro il 2050. Il pacchetto da 100 miliardi di euro è uno dei tasselli di una rivoluzione che si vuole economica, oltre che ambientale. A beneficiare del pacchetto saranno in modo particolare i paesi dell'Est Europa. E proprio qui nascerebbero i primi dubbi sulle reale efficacia e portata del pacchetto. I paesi dell’est europeo, con in testa la Polonia, sono infatti i maggiori utilizzatori di carboni fossili, sopratutto carbone, e il fatto che la maggior parte dei fondi sarebbero stanziati proprio a loro lascia adito a molti dubbi e perplessità fra i paesi più ricchi, come Francia Italia e Germania.  Ruolo cruciale avrà il Just Transition Fund (in italiano: il Fondo per una transizione equa). Quest'ultimo sarà dotato di denaro fresco per 7,5 miliardi di euro, che grazie al cofinanziamento nazionale, al braccio finanziario InvestEu e alla Banca europea degli investimenti porterà il totale a 100 miliardi di euro. Secondo le prime stime per fare un esempio il nostro paese sarebbe destinatario di circa 400 milioni di euro, una cifra tutto sommato modesta se rapportato all’importo totale e alle misure che dovranno essere adottate. La distribuzione del denaro tra i paesi membri, infatti, si baserà su alcuni criteri: tra questi, la presenza di emissioni nocive, l’occupazione nei settori del carbone e della lignite, la produzione di torba o di scisti bituminosi. Ecco allora che proprio i paesi più inquinanti come la Polonia, che non a caso si è astenuta sul provvedimento ( temendo altissimi costi di ristrutturazione), sarebbero di gran lunga i maggiori beneficiari dei fondi europei. Ma il problema che resta ancora sul tavolo e che non è stato ancora affrontato riguarda, come giustamente fatto notare dal capo delegazione di Fratelli di Italia, Carlo Fidanza, il nodo che riguarda lo scorporo degli investimenti pubblici “verdi” dal calcolo del deficit. Su questo come detto, malgrado le rassicurazioni del ministro Gualtieri e del commissario Gentiloni, la questione è ancora tutta aperta e nulla è stato ancora deciso ma le prime avvisaglie non inducono ad essere troppo ottimisti. “Senza un fondo per la prevenzione del rischio idrogeologico e lo scorporo degli investimenti verdi dal calcolo del deficit pubblico si rischia che il Green Deal si traduca in maggiori costi diretti ed indiretti per le imprese, lasciandole in balia della concorrenza sleale asiatica.” sottolinea in un comunicato il gruppo di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo. Ed in effetti se da un lato è sicuramente apprezzabile questo tentativo dell’Europa di agire in maniera decisa sulla delicata materia ambientale, si corre il rischio di ottenere un ulteriore carico per le imprese a favore appunto di quelle asiatiche e statunitensi che invece possono godere di leggi e regole molto meno limitanti in materia di inquinamento. Il problema, infatti, è che come dimostrato alla ultima fallimentare assise di Madrid sul clima, Stati Uniti e Cina, che sono di gran lunga i maggiori inquinatori al mondo, hanno dimostrato di non voler rinunciare alla crescita delle loro aziende a scapito di una maggiore attenzione al clima. E l’Europa come al solito ha purtroppo mostrato per l’ennesima volta che il suo peso specifico a livello globale è sempre meno determinante. Ecco allora che per un volta che l’Europa prende spontaneamente una presa di posizione importante per provare ad essere una sorta di motore propulsivo del mondo, si rischia di creare l’ennesimo pastrocchio che non raggiunge il suo scopo primario, ma anzi rischia di rivelarsi controproducente per i suoi paesi membri. L’obiettivo dichiarato dalla Commissione, infatti, sarebbe quello di diventare il leader globale di una nuova economia verde a cui inevitabilmente il resto del mondo dovrà adeguarsi. Ma per ottemperare agli ambiziosi obiettivi stabiliti dal piano, occorrerebbe da qui al 2050 uno sforzo immane, sopratutto dal punto di vista finanziario, che non può non far leva sui vincoli di bilancio degli Stati, che da tempo devono sottostare al controllo serrato della Commissione su parametri assai stringenti. Le imprese non possono chiaramente sobbarcarsi totalmente un ulteriore costo sui loro bilanci gia da tempo messi in difficoilta dalla crisi economica, senza che si agisca sui vincoli di bilancio statali che tanto hanno nuociuto in questi anni. La prospettiva che si apre per il continente europea è importante e forse unica, ma chiaramente essa deve essere supportata dalle autorità europee senza se e senza ma. Dopo anni di austerità la prospettiva che si possa creare grazie agli investimenti green un volano crescita, di occupazione e di recupero di aree industriali in difficoltà ( come nel caso dell’Ilva di Taranto) è assai incoraggiante, ma occorre che queste intenzioni siano supportate da fatti concreti e reali. Essere leader si dimostra con i fatti non con le parole. E in questi ultimi dieci anni di parole senza costrutto all’interno della comunità europea ne sono state spese a fiumi.

sabato 11 gennaio 2020

SE ANTIFASCISMO DIVENTA INTOLLERANZA

L'ultima polemica in ordine di tempo ha riguardato un paio di parastinchi indossati dal giocatore dell’Inter Biraghi. Un uragano di insulti via web dai professionisti dell'odio che sempre più si nascondono sotto la troppo facile ed abusata bandiera dell'antifascismo sono piovute sul giocatore reo di aver usato parastinchi con supposte effigi fasciste. L'immagine di un elmo spartano, simbolo caro al giocatore, fan del film Trecento. Quanto alla scritta "Vae Victis" - secondo lo storico Livio, pronunciata dal condottiero dei galli senoni Brenno nel 390 a.C. - sarebbe vissuta dal giocatore come un'incitazione a vincere. Povero Biraghi che ha dovuto spinto dalla società immediatamente giustificarsi di fronte non si a quale colpa, se non quella di avere osato solo ricordare seppur lontanamente un passato certamente triste e buio, ma che appunto tale è destinato a rimanere. E singolare che la medesima cosa non avvenga in Germania, patria del nazismo. Mai a livello politico si ricorda qualche polemica in cui venisse rievocato il periodo del nazismo. Mentre in Spagna proprio quando sulla scena si affaccia un partito di destra come Vox in grado di raccogliere grandi consensi ecco cominciare una caccia alle streghe per salvare il paese dai nuovi eredi di Franco. Addirittura Sanchez voleva mettere una sorta di cordone sanitario per non permettere a Vox di accedere ai posti che le spettavano nell'ufficio di presidenza della Camera. Questo non è forse razzismo o privazione della legittima libertà di pensiero..? In Italia invece ogni minima scusa e buona per tirare fuori il pericolo nero. Ne sa qualcosa la sempre più convivente Giorgia Meloni, che oltre a dover combattere con il pregiudizio di essere donna, le tocca pure difendersi dalle accuse di essere una sorta di nipotina dei gerarchi. Non conta quello che si dice e quello che si fa. Si ha una sorta di marchio ( tanto per restare a qualcosa tristemente noto sotto il periodo nazista e fascista verso i poveri ebrei) solo perché magari si ha un atteggiamento più duro verso temi quali la sicurezza l'immigrazione senza controllo. Nell'ultimo bel libro di Vespa, che non a caso è dedicato proprio a questo argomento, il ministro della cultura Franceschini ha candidamente paragonato il governo giallorosso a quello di Facta che fu il preludio a quello Mussoliniano. Beh il fatto che un importante dirigente del PD si lanci in un simile paragone, indica due cose che si ha paura di Salvini e della destra e che non si come combatterla sul campo delle idee e perciò si evoca la paura, che fa spesso da collante a chi ha povertà di idee e a quelli che appunto affidano ad altri la risoluzione dei problemi. Ma non si va lontano se come unica arma di lotta politica si usa la paura e l incubo di un passato che mai potrà tornare, come ben spiega Bruno Vespa nella sua ultima fatica letteraria tornerà. La causa scatenante di questa nuova ondata di antifascismo come appunto ha apertamente detto Franceschini ha un nome ed un cognome:Matteo Salvini. La improvvisa ascesa lo ha di fatto reso il facile bersaglio di tutte le paranoie, gli isterismi,le contraddizioni e le debolezze che pervadono la sinistra da oltre un decennio. Quando non si sa come fermare il “nemico” questa sinistra, che lei si non riesce a liberarsi di tutto quel mondo che orbita intorno ai centri sociali e all'estremismo di sinistra, lo addita al pubblico ludibrio come pericolo fascista. Tu non puoi governare perché sei piccolo e nero. Qualsiasi affermazione un oltre righe o atteggiamento ruvido e subito sintomo di fascismo ed estremismo. Mentre quando la medesima cosa accade nell altro versante si tende ad abbozzare. Ma tant'è si continua ad offendere chi non la pensa allo stesso modo sempre con la solita solfa del fascismo e del nazismo, magari citando qualche decerebrato che su internet o attraverso la curva ancora rivendica idee come purezza della razza o rifiuto del diverso. Ma sono appunto casi clinici che molti invece vogliono far passare per strisciante movimento che rischia di infiltrarsi nei gangli della società. Esiste da tempo una sorta di idea che chi è di destra debba per forza di cose essere citato come un presunto amante a dittatura e nostalgico del pensiero fascista. Da sempre AN ed ora Fratelli d’Italia devono convivere con questo assioma che tutti pongono per contrastare quelle che invece sono idee moderne e chiare che si rifanno alla identità nazionale e alla difesa dei diritti dei più deboli. Ma qualsiasi cosa essi facciano sempre si annida quel maligno retropensiero che dietro al partito si nasconda la volontà di rovesciare il sistema democratico per tornare al ventennio. Certo negli anni settanta la contrapposizione fra una destra violenta e autoritaria contro una sinistra libertaria e rivoluzionaria poteva forse dare adito a qualche idea controversa. Ma oggi pare davvero antistorico e moralmente disonesto accusare di tutto ciò chi come la Meloni e nata verso la fine degli anni 70.

NASCE IL PRIMO KIT ANTISOFISTICAZIONE OLIO EXTRAVERGINE

  Nasce il primo kit domestico per scoprire difetti, frodi e contraffazione di uno degli alimenti principi sulla tavola degli italiani, l’ol...