lunedì 28 settembre 2020

LA CATALOGNA IN DECLINO PER LA TROPPA VOGLIA DI AUTONOMIA

 


Caos politico, degenerazione istituzionale, declino economico, confronto sociale, declino culturale: questa è la Catalogna oggi. La locomotiva del Paese, già prima dello scoppio della pandemia, soffriva un calo economico, culturale e sociale, dovuto alle lotte intestine per l’autonomia. I casi giudiziari, le diatribe fra i partiti indipendentisti, avevano allontanato da Barcellona molti investitori dalla capitale catalana. “Quello che vediamo è che Madrid funge da centrifuga rispetto al resto dell'economia spagnola ”  riflette Joan Ramon Rovira, direttore del servizio di analisi della Camera di Commercio di Barcellona. "È una conseguenza del processo di svuotamento della Spagna", aggiunge. Negli ultimi quattro anni, l'Andalusia, le Asturie e la Castiglia e León hanno perso peso relativo rispetto all'economia spagnola nel suo complesso. Il 2018-2019 è il secondo periodo in 20 anni in cui Madrid supera la Catalogna nel suo PIL. Il primo è stato tra il 2012 e il 2013.
Questa situazione ha un substrato nelle tendenze economico-tecnologiche a lungo termine che indeboliscono la struttura produttiva della regione. La relativa deindustrializzazione della Catalogna ha limitato la sua crescita e il suo posto nell'economia spagnola. Nota come ridimensionamento, questa tendenza è un male insito nei paesi e nelle regioni precedentemente avanzati. Di fronte al cambiamento tecnologico e all'ascesa di altri, devono sviluppare nuove vie per il progresso.
“L'attuale situazione di declino in Catalogna ha questo fondamento e, a sua volta, ha un innesco molto potente: la sfida del separatismo alla democrazia spagnola, amplificata nell'ultimo decennio e culminata con il “ colpo di stato” nell'autunno 2017” dice Ferran Brunet, professore di economia europea alla Università di Barcellona . La contesa fra la Genralitat catalana e il governo spagnolo è proseguita e se possibile si è forse maggiormente accentuata proprio durante la pandemia,  con continui contrasti fra il governo regionale e quello centrale sulla gestione della stessa, contribuendo a creare confusione e problemi nel controllo dei contagi. Anche se non molti in Catalogna la pensano esattamente come il celebre economista e scrittore catalano Santiago Niño Becerra che ha affermato di recente in un intervista a Lavanguardia che “ Poter contare su un'autonomia fiscale e finanziaria, cioè un'autonomia reale, avrebbe dato margini che la Catalogna attualmente non ha. Ad esempio: il periodo di centralizzazione dell'acquisto di materiale sanitario è stato un fallimento e questo non sarebbe successo. Il governo avrebbe preso una serie di misure, che non ha potuto prendere, come la quarantena obbligatoria. Una Catalogna indipendente, o con un'autonomia molto elevata, avrebbe potuto difendersi molto meglio dal coronavirus e prendere una serie di misure che non è stata in grado di fare ora”. Forse sta proprio qui la contraddizione spagnola, tra chi vorrebbe maggiore autonomia per rilanciare il proprio modello economico, e chi invece sostiene che il processo di autonomia che nel 2017 ha portato ad un referendum per l’indipendenza, ha scatenato il panico fra gli investitori internazionali, che sono letteralmente fuggiti dalla zona.“ La conseguenza di questo desiderio e del perseguire la via verso il separatismo, non è l'indipendenza della Catalogna, ma è il declino della Catalogna” come appunto aggiunge  Brunet. L'economia della Catalogna è calata del 15,6% nel secondo trimestre dell'anno, il crollo più grande da record, colpita dalla crisi del coronavirus, che ha paralizzato l'attività e ha colpito tutti i settori. Su base annua, il calo si allarga al 20,1%. Entrambe le cifre sono inferiori a quelle registrate in tutta la Spagna, ma la situazione, secondo gli analisti riflette un declino che non ha solo attinenza con la pandemia, ma che riguarda tutto il tessuto produttivo sociale ed economico della zona manifestatosi nell’ultimo decennio.
Tra il 2010 e il 2019, la competitività della Catalogna tra le 271 regioni europee è passata dalla posizione 103 alla posizione 161. Madrid è al 98 ° posto. In effetti, sulla base del cambiamento economico, è stata attuata forse la peggiore politica possibile: introdurre instabilità nelle istituzioni. Così, nel mondo globale in cui il capitale circola liberamente, la qualità delle istituzioni è l'elemento essenziale della competitività. La Catalogna, luogo storicamente privilegiato per gli investimenti esteri, ne ha ricevuto il 5% nel 2018 e nel 2019, il resto è andato principalmente a Madrid. Ciò che i separatisti catalani scacciano, Madrid accoglie con favore. Tutti gli indicatori mostrano l'entità del declino catalano. La sfida separatista ha un costo molto alto (passato, presente e futuro), economico, politico, sociale e personale, che ora rischia di arrivare a mettere in crisi anche lo stesso governo centrale, se come annunciato, il partito catalano di Erc, non voterà la legge di bilancio ad Ottobre.
Quando può cominciare a fermarsi il declino della Catalogna? Secondo alcuni quando lo deciderà il sistema politico spagnolo. Fino ad ora, l'indolenza dei governi spagnoli sembra aver prevalso, consentendo a un'autocrazia indipendentista di regnare in una parte del paese e aumentando il costo politico del rispetto dello stato di diritto in Catalogna. La crisi di questa estate che ha colpito la corona spagnola, con l’esilio volontario del re emerito Juan Carlos, inseguito da inchieste giudiziarie di vario titolo, e difeso dal premier spagnolo Sanchez, non ha fatto altro che rinfocolare lo spirito irredentista di parte dei catalani, che da sempre vedono la corona spagnola come fumo negli occhi. Ovviamente, la Catalogna e la Spagna hanno bisogno di politici e governanti spagnoli per superare questa impasse. “La Catalogna avrebbe bisogno che i governanti abbiano un po 'di buon senso, e un minimo di responsabilità. Nel suo declino e dell'indolenza del sistema politico, la Catalogna ha un problema essenziale. Forse anche la Spagna ha un problema sostanziale nel declino della Catalogna e all'indolenza delle sue istituzioni politiche”. Conclude il professor Brunet.


sabato 12 settembre 2020

SALE LA TENSIONE TRA FRANCIA E TURCHIA NEL MEDITERRANEO ORIENTALE


Macron o Erdogan si ritireranno nel Mediterraneo orientale? Questa è la questione che aleggia da giorni sul tavolo delle diplomazia internazionali dopo che ad Agosto la tensione fra i due paesi per la questione di Cipro e Grecia ha comi citato ad innalzarsi in maniera preoccupante. Il presidente francese Emmanuel Macron ha chiaramente deciso infatti, di alzare la posta in gioco in una situazione di stallo con la Turchia nel Mediterraneo orientale, dove la Francia sta appoggiando Grecia e Cipro nella loro disputa con Ankara sulle riserve di gas naturale e sui confini marittimi.  In primo luogo, Macron ha ordinato un rafforzamento temporaneo delle risorse aeree e navali francesi nel Mediterraneo orientale a metà agosto, in risposta alle navi turche che riprendevano le controverse attività di esplorazione del gas a sud di Cipro. Quindi, è arrivato al punto di inquadrare le sue azioni come una "politica della linea rossa" per dimostrare al presidente Recep Tayyip Erdogan che il suo comportamento no era più accettabile dal governo francese( mentre come al solito l unione europea assisteva al tutto da spettatore )

Sebbene l'escalation militare della Francia nel Mediterraneo orientale sia stata in gran parte simbolica, poiché ha impegnato solo due aerei da combattimento Rafale aggiuntivi e una nave da guerra, il rischio che la tensione possa salire ulteriormente e assai reale.  Le marine francese e turca, dopo tutto, sono quasi venute alle mani a giugno dopo che una nave francese sotto il comando della NATO, che stava applicando un embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite alla Libia, ha tentato di ispezionare una nave battente bandiera della Tanzania che era scortata da tre navi turche da guerra al largo della costa libica.
Tutto ciò ha fatto infuriare Erdogan, che, in un riferimento sottilmente velato alla Francia, il mese scorso ha avvertito che "nessuno dovrebbe pensare a se stesso come un gigante allo specchio".  Erdogan vede la Francia come una potenza superata e un intrigante sgradito in un'area al di fuori della sua legittima sfera di influenza. Le tensioni sulle acque nel Mediterraneo orientale rientrano anche nella narrativa nazionalista e neo-ottomana di Erdogan, che ritrae i paesi occidentali come partner inaffidabili che cercano di impedire il legittimo ritorno della Turchia come potenza regionale. E il solito discorso di Erdogan che sembra ormai sentirsi libero di tirare la corda fino a quasi spezzarla dopo che gli Usa di Trump hanno praticamente lasciato il campo libero nella zona.
Il rischio, ovviamente, è che sia la Turchia che la Francia vedano sempre più la situazione nel Mediterraneo orientale come un gioco a somma zero. L'ampia scacchiera, che si estende dal Nord Africa al Levante, era una volta un'area di controllo imperiale ottomano e francese in competizione. Sebbene siano stati alleati della NATO per decenni, la Turchia e la Francia hanno pochi interessi condivisi nella regione in questi giorni, e su alcune questioni sembrano addirittura avversari geopolitici.
Ma cosa spera davvero di ottenere Macron con questa presa di posizione più audace contro Erdogan?  Per cominciare, il bacino del Mediterraneo orientale è ancora un posto di rilievo nel pensiero geopolitico francese.  Dopo un vertice con il cancelliere tedesco Angela Merkel alla fine di agosto, Macron ha ribadito che la Francia si identificherà sempre come "una potenza mediterranea".  Con la sua eredità coloniale, la Francia ha ancora una significativa influenza culturale ed economica nelle regioni costiere del Nord Africa e del Levante.
La Francia vede anche la sua impronta militare a lungo termine nel Mediterraneo come un elemento importante della sua strategia nazionale di difesa e sicurezza e come trampolino di lancio per la proiezione del potere.  A tal fine, la recente flessione dei muscoli militari di Macron segue un graduale accumulo francese nel Mediterraneo orientale. La marina francese ha condotto una serie di esercitazioni congiunte con la marina greca e cipriota, nonché con altri partner regionali, negli ultimi due anni.  Nel maggio 2019, Parigi e Nicosia hanno firmato un accordo che consente alle navi militari francesi di essere ospitate nella base navale Mari di Cipro. E il mese scorso è entrato in vigore un nuovo accordo di cooperazione in materia di difesa firmato da Francia e Cipro nel 2017.
L'obiettivo strategico di Macron è sfidare l'attuale equilibrio del potere navale nella regione, che, in un'epoca di ridimensionamento americano, attualmente favorisce la Turchia.  Negli ultimi dieci anni, la Turchia ha investito molto nella costruzione della propria forza navale e delle proprie capacità di produzione navale. Erdogan ha anche adottato una dottrina navale più stridente e nazionalista nota come "Blue Homeland", che mira a proteggere gli interessi marittimi di Ankara nel Mediterraneo, Egeo e Mar Nero.  La preoccupazione a Parigi, Atene e in altre capitali europee è che la Turchia mira a sfruttare la sua forza navale per imporre un nuovo ordine nel Mediterraneo orientale, trasformandolo in quello che alcuni funzionari chiamano un "lago turco".
Ma non mancano in tutto ciò anche le questioni economiche, ovviamente.  All'inizio di quest'anno, la Francia ha richiesto l'adesione al Forum del gas del Mediterraneo orientale, un gruppo formato di recente che include Egitto, Israele, Grecia, Cipro, Giordania e l'Autorità palestinese, ma non la Turchia.  L'EMGF(East med gas forum) mira a sviluppare il mercato del gas della regione per soddisfare le esigenze energetiche degli Stati membri ed esportare gas a prezzi competitivi nell'UE. Naturalmente, le compagnie petrolifere e del gas francesi vogliono un pezzo della torta.  Il colosso energetico francese Total ha ottenuto i permessi congiunti di esplorazione del gas con la società italiana Eni nelle acque cipriote, oltre che nelle acque costiere greche e libanesi. Un ruolo geopolitico più assertivo potrebbe aumentare l'influenza della Francia intorno al tavolo mentre continuano i complessi negoziati per l'estrazione, il mercato e il trasporto di gas dal Mediterraneo orientale. La Francia insomma, al contrario del nostro paese, come già accaduto in Libia cerca sempre di portare acqua la suo mulino e difendere i proroi interessi nella zona. Il fatto che Erdogan adesso sembra spinto dallo stesso spirito potrebbe diventare un ulteriore motivo di tensione.

Inoltre secondo alcuni Macron avrebbe in parte puntato la sua presidenza sulla promessa di rafforzare l'Unione europea e di rafforzare la sua "autonomia strategica".  A tal fine, una presenza turca incontrollata nell'immediata periferia dell'UE convincerebbe ulteriormente il mondo, e molti euroscettici in Europa, che l'UE non può essere considerata un attore geopolitico legittimo.  Macron vuole dipingere Erdogan come lo spauracchio esterno nel tentativo di rafforzare la coesione dell'UE come progetto politico e strategico distinto.
Sebbene Macron capisca che non tutti i membri dell'UE sono a proprio agio nell'impegnare risorse militari nella regione, ha ripetutamente spinto l'UE a sanzionare la Turchia nel tentativo di fare pressione su Erdogan. Inoltre, sono in gioco fattori geopolitici più ampi. Come alleato della NATO, la Turchia può ancora teoricamente porre un freno alle ambizioni russe nel Mediterraneo orientale, anche se Erdogan ha coltivato legami più stretti con Mosca.  Secondo quanto riferito, la NATO sta lavorando duramente per facilitare i colloqui a livello militare tra Grecia e Turchia per evitare un'escalation, mentre le Nazioni Unite cercano una soluzione diplomatica.
Ma ci sono indicazioni che la campagna di Macron per respingere l'aggressività della Turchia nel Mediterraneo orientale stia iniziando a dare i suoi frutti a Bruxelles.  Il 28 agosto, il capo della politica estera dell'UE, Josep Borrell, ha avvertito Ankara che potrebbe incorrere in sanzioni economiche se gli sforzi diplomatici fallissero prima del prossimo vertice dell'UE il 24 settembre. Sembra che i membri dell'UE stiano gradualmente arrivando alla visione di Macron che  un'opzione coercitiva credibile è una perdita di tempo. I francesi stanno lavorando duramente dietro le quinte per mettere sul tavolo una serie di potenziali misure economiche alla fine di questo mese.
Detto questo, le sanzioni dell'UE richiedono l'unanimità e una volontà comune per farle rispettare, quindi una retorica dell'UE più dura non si tradurrà necessariamente in sanzioni economiche contro la Turchia.  Macron sa anche che qualsiasi pressione sostenibile dell'UE su Erdogan deve passare attraverso Berlino, la principale potenza economica dell'UE. La Germania ha finora resistito alle richieste francesi di sanzioni contro la Turchia, con la Merkel che preferisce concentrarsi sulla diplomazia.
Il lato positivo è che, nonostante tutti i rischi, né la Francia né la Turchia vogliono veramente un conflitto militare. E tutte le parti del Mediterraneo orientale, comprese Grecia e Cipro, continuano a sottolineare la necessità di dialogo e negoziati per risolvere la controversia sui diritti di perforazione e sulle rivendicazioni marittime concorrenti.

lunedì 7 settembre 2020

PER LA CINA MEGLIO BIDEN O TRUMP?


 Mentre la campagna di Joe Biden per molti e  ampiamente percepita come un'offerta per gli elettori americani di una sorta di "ritorno alla normalità" dopo l'era Trump, pochi si aspettano lo stesso quando si tratta delle relazioni USA-Cina.

Mentre l'ex vicepresidente è attualmente in testa nei sondaggi, molti esperti si aspettano che la corsa si inasprisca e la Cina rischia di diventare una delle principali aree di politica estera, in cui i due candidati cercheranno di ottenere un vantaggio, sfruttando le vulnerabilità percepite del loro rivale.

Sia Donald Trump che Biden una volta si sono vantati della loro connessione personale con il presidente cinese Xi Jinping, ma hanno cambiato notevolmente la loro posizione negli ultimi mesi, facendo leva proprio su chi sarà più duro con il Partito Comunista cinese.
Con il futuro in bilico, Pechino ha drasticamente attenuato la sua retorica nazionalista ed è rimasta in gran parte reticente sulle imminenti elezioni.

Questa cautela insolita è altamente rivelatrice di ciò che Pechino pensa veramente delle prossime elezioni - un momento decisivo per le relazioni USA-Cina, secondo ex diplomatici e osservatori.

"Data l'importanza storica delle elezioni del 2020, c'è una fugace finestra di opportunità per entrambe le parti di scendere dallo scontro simile alla guerra fredda, chiunque vinca la Casa Bianca", ha detto Pang Zhongying, uno specialista di affari internazionali presso la Ocean University of  China.

Ma dato il risultato incerto e le accuse dei servizi segreti statunitensi secondo cui la Cina avrebbe tentato di interferire nel processo elettorale, Pechino è molto cauta nello schierarsi con un candidato rispetto all'altro.
Secondo Gu Su, politologo dell'Università di Nanchino, questa reticenza di Pechino sottolinea la diffidenza della leadership circa l'ostilità sempre più profonda tra i due paesi.

Nell'ultimo anno, la Cina ha interpretato male la determinazione dell'amministrazione Trump di affrontare la Cina su Hong Kong, il Mar Cinese Meridionale, Taiwan, lo Xinjiang e molte altre questioni, ha detto Gu.Su, aggiungendo che dopo un anno di montagne russe, "non credo che Pechino vorrebbe essere colta di nuovo alla sprovvista".

George Magnus, un associato al China Centre dell'Università di Oxford, ha detto che è molto probabile che Pechino si aspetti cambiamenti nello stile, non nella sostanza, nella politica statunitense nei prossimi quattro anni, e sono intenzionati a vedere cosa succede a novembre prima di rispondere o ricalibrare la loro posizione.
"Essendo la discrezione la parte migliore del valore, forse Pechino è rassegnata alla natura irritabile delle relazioni con gli Stati Uniti nel prossimo futuro e non vuole scuotere inutilmente la barca a questo punto", ha detto.

Sotto la calma inquieta di Pechino, c'è un dibattito in corso all'interno dell'establishment della politica estera cinese, che è diviso sul fatto che Biden o un secondo mandato di Trump siano "il minore dei due mali" per la Cina.
Per mesi, esperti cinesi e consiglieri governativi hanno chiesto alla leadership cinese di guardare oltre la presidenza Trump, che dal punto di vista di Pechino era principalmente responsabile del declino ripido e precipitoso delle relazioni USA-Cina..
In un messaggio diretto alla Casa Bianca di Trump all'inizio di questo mese, l'ambasciatore cinese Cui Tiankai ha fatto appello pubblicamente al dialogo e ha respinto le preoccupazioni secondo cui Pechino voleva aspettare la fine della presidenza Trump e aveva riposto le sue speranze sul suo rivale democratico.
"Siamo pronti a lavorare con l'attuale amministrazione per cercare soluzioni ai problemi esistenti, sempre e ovunque, anche oggi o domani", ha detto a un seminario di politica estera online ospitato dalla Brookings Institution il 13 agosto.

“Le dinamiche interne americane vanno ben oltre ciò che possiamo prevedere o influenzare.  Non abbiamo intenzione o interesse a farci coinvolgere ".
Per i moderati e gli internazionalisti in Cina che favoriscono l'ex vicepresidente, una Casa Bianca di Biden offrirebbe un ritorno all'approccio fermo e moderato degli anni di Obama.

Robert Daly, il direttore del Kissinger Institute del Wilson Centre, ha detto che Biden adotterà una retorica meno provocatoria, si impegnerà nuovamente con le istituzioni internazionali, cercherà opportunità per cooperare con Pechino e condurrà la politica secondo un modello strategico.
"Tutti questi fattori porterebbero un certo grado di stabilità a una relazione USA-Cina ancora molto controversa", ha detto.
Ma Daly crede anche che una presidenza Biden cercherebbe anche di lavorare con gli alleati degli Stati Uniti che condividono le sue preoccupazioni sulla Cina.

Gal Luft, co-direttore dell’ Institute for the Analysis of Global Security a Washington, ha sostenuto che nessuno dei due candidati era una scelta allettante per Pechino, dicendo che era improbabile che Biden tornasse alla politica di impegno che ha prevalso negli ultimi quattro decenni date le percezioni negative  della Cina negli Stati Uniti.
Ma Luft ha aggiunto: "Per Pechino la scelta è tra distensione e guerra, ed è più probabile che Biden offra la prima".
Una vittoria di Biden sarebbe “un'opportunità per le due parti di voltare pagina, rilanciare il franco dialogo strategico e allontanare la politica estera statunitense dalla psicosi cinese di cui ha sofferto sotto Trump”, ha detto.

Sebbene un'amministrazione Biden sarebbe più "diplomatica" e disposta a discutere aree di interesse comune con Pechino,
Il 77enne Biden, che una volta Xi Jinping ha descritto come "il mio vecchio amico", ha una lunga storia di rapporti con la Cina ed è ampiamente considerato un sostenitore della politica di avvicinamento fra i due paesi  che risale alla visita rivoluzionaria di Richard Nixon a Pechino in 1972

Fu uno dei primi senatori statunitensi a visitare la Cina e incontrò il defunto leader supremo Deng Xiaoping nell'aprile 1979, appena tre mesi dopo che Pechino e Washington avevano stabilito legami ufficiali.
Biden ha dichiarato a un evento del Council on Foreign Relations nel 2018 che "ho trascorso più tempo in riunioni private con Xi Jinping di qualsiasi altro leader mondiale".  Secondo i calcoli di Biden, il duo ha avuto circa "25 ore di cene private" insieme durante le sue visite del 2011 e del 2013 in Cina e la visita di Xi nel 2012 negli Stati Uniti.
Prima di adottare una posizione più dura nei confronti della Cina quest'anno sulla scia della pandemia Covid-19, Biden ha spesso sfidato l'approccio conflittuale di Trump alla Cina e ha negato che fosse in concorrenza con gli Stati Uniti.

Secondo Robert Sutter, professore di affari internazionali alla George Washington University, un punto di svolta per le campagne elettorali di entrambi i candidati è arrivato a marzo quando il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian ha promosso una teoria del complotto secondo cui l'esercito americano aveva introdotto il coronavirus a Wuhan.

"L'indurimento di Biden è stato notevole, e così è stato di Trump da aprile", ha detto, sostenendo che è stato guidato dai calcoli elettorali e dalla crescente ostilità tra il pubblico statunitense. .
Sebbene la piattaforma del Partito Democratico per le elezioni del 2020 - adottata formalmente alla sua convention nazionale di metà agosto - abbia respinto l'approccio altamente conflittuale di Trump, ha anche promesso di continuare a respingere i tentativi della Cina di "minare le norme internazionali" e resistere alle sue politiche in  aree come il Mar Cinese Meridionale, Hong Kong e Xinjiang.

Nonostante perciò Biden abbia promesso di diventare duro con la Cina costruendo un fronte unito di alleati e partner americani e di ripristinare la leadership globale dell'America in un articolo per la rivista Foreign Affairs di gennaio, gli osservatori sono rimasti scettici sul suo impatto, soprattutto considerando la crescente opposizione internazionale all'unilateralismo statunitense.

E opinione comune che il 77enne Biden sarà un presidente per un solo mandato e, come tale, non è molto probabile che voglia  sprecare il suo tempo prezioso in carica a braccio di ferro con la Cina.

Sempre Robert Daly ha recentemente  sottolineato” le contraddizioni intrinseche con il pensiero di Trump sulla Cina, in particolare la sua posizione isolazionista autolesionista quando cerca di ottenere il sostegno globale per contrastare la Cina, dopo aver alienato gli alleati e ritirato gli Stati Uniti dal loro ruolo di leadership globale”.
Chiunque vinca, secondo molti osservatori  la sfida più grande per entrambi i paesi resta quella di come delineare una strategia praticabile per le due maggiori economie del mondo per "coesistere in un modo meno antagonista
Il comportamento di Trump in carica ha messo molti cinesi comuni contro gli Stati Uniti per la prima volta dal 1979 e ha allontanato i leader e le popolazioni di tutto il mondo. Quindi questo atteggiamento paradossalmente ha favorito chi desidera una Cina sempre più influente a livello globale considerando appunto che Trump ha rinunciato alla leadership globale americana proprio mentre la Cina si sente pronta a esercitarla.

I nazionalisti cinesi probabilmente quindi favoriranno quindi la rielezione del presidente Trump anche se trovano la sua amministrazione odiosa
Il più grande interesse della Cina per le elezioni presidenziali non sembra perciò quello di promuovere la vittoria di un determinato candidato, ma vedere ulteriormente screditata la democrazia americana.  “Un'elezione controversa e caotica che fa dubitare agli osservatori globali della saggezza del sistema politico americano, andrà bene sia a Pechino che a Mosca”. Ha commentato Daly.

venerdì 4 settembre 2020

LA LONGA MANUS DI ERDOGAN SUL MEDITERRANEO


Il 24 luglio, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è unito a migliaia di fedeli nelle strade intorno alla storica Basilica di Santa Sofia a Istanbul per un momento doppiamente simbolico. Circondato da uno sciame di politici, soldati, forze di sicurezza e imam, il leader turco si è fatto strada nella gigantesca ex cattedrale bizantina attraverso le porte un tempo aperte con martello dai soldati ottomani conquistatori nel 1453. All'interno, lesse il namaz, o preghiera musulmana , trasformando formalmente l'edificio di 1.500 anni in una moschea. In tal modo, Erdogan stava voltando pagina su nove decenni di storia recente, durante i quali questa straordinaria struttura e patrimonio mondiale dell'UNESCO erano stati un simbolo riconosciuto a livello mondiale della Turchia secolare. Infatti, dal 1934, Hagia Sophia non era stata né una cattedrale né una moschea, ma un museo secolare, istituito come tale dallo stesso fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk. Eppure quel giorno Erdogan non stava solo sfidando la visione di Ataturk di uno stato laico. Scegliendo il 24 luglio per tenere la cerimonia di riapertura, Erdogan stava anche sfidando l'intera fondazione dello status internazionale della Turchia moderna. Fu in quella data nel 1923, infatti, che la Turchia di Ataturk firmò il Trattato di Losanna, che pose fine ad anni di guerra e occupazione, dando riconoscimento internazionale alla nuova Repubblica turca. Quel trattato ha anche sciolto formalmente il predecessore della repubblica, l'Impero Ottomano, che un tempo si era esteso dal Caucaso allo Yemen e dall'Iraq alla Libia. Con la firma del Trattato di Losanna, Ankara aveva rinunciato a tutte le rivendicazioni su quelle terre e, con esse, alla sua antica grandezza imperiale. La Turchia sta ora compiendo una mossa importante per porre fine allo status quo regionale che il Trattato di Losanna ha ampiamente stabilito. E il crogiolo di questa sfida sono sempre più le acque del Mediterraneo orientale. Il Trattato di Losanna è stato a lungo presentato dai secolaristi turchi come un trionfo per Ataturk e la diplomazia turca, che istituisce la moderna repubblica laica e pone fine ai conflitti internazionali della Turchia con una politica di "pace in patria, pace all'estero" per la nuova nazione. Questa regione una volta era stata interamente sotto il dominio ottomano, sebbene nel 1923 la maggior parte di essa facesse parte della Grecia. Alcune isole, come Rodi e la minuscola Kastellorizo, furono amministrate dall'Italia fino a dopo la seconda guerra mondiale, quando i trattati di pace di Parigi del 1947 le assegnarono anche ad Atene. Anche Kastellorizo  e’ un caso particolare, quando si tratta di obiezioni turche contemporanee alle conseguenze di Losanna. L'isola si trova a solo un miglio dalla città costiera turca di Kas, ma 354 miglia a sud-est di Atene. "La Turchia è ridotta in un'area di mare molto piccola e ingiusta", afferma Altug Gunal, professore presso il dipartimento di relazioni internazionali all'Università Ege di Izmir. Negli ultimi anni, quindi, le navi turche di ricerca sismica, e più recentemente le navi di perforazione, hanno operato nelle acque al largo di Cipro rivendicate da entrambe le parti. Nel 2018, ciò ha portato le navi da guerra turche a minacciare di speronare una nave incaricata dall' Eni di condurre prospezioni sottomarine, mentre dall'agosto 2019 all'inizio del 2020, le navi turche hanno perforato al largo della costa settentrionale di Cipro. Queste tensioni si sono ulteriormente intensificate nel novembre 2019, quando la Turchia ha firmato un accordo con il governo libico riconosciuto a livello internazionale a Tripoli, noto come Governo di Accordo Nazionale, o GNA, che è nato dalle complicate dinamiche regionali della guerra civile di quel paese. I combattimenti apparentemente contrappongono il GNA di Al Sarraj, alle forze dell'esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, fedele al governo rivale di Tobruk guidato da Aguila Saleh Issa. Ma nel corso del 2019, il conflitto libico è diventato una vera e propria guerra per procura. La Turchia e l'Italia sostengono il GNA, mentre Russia, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Francia hanno fornito sostegno - compresa l'assistenza militare - alle forze di Haftar, sebbene Parigi neghi qualsiasi sostegno formale. Per come la vede Ankara, l'elemento marittimo del suo accordo libico conferisce alla Turchia il diritto di esplorare petrolio e gas non solo al largo di Cipro, ma anche al largo delle isole greche come Creta e Kastellorizo. Abbastanza sicuro, quest'estate, a luglio, il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha annunciato che la Turchia avrebbe assunto questo diritto e avrebbe inviato le sue navi di ricerca e perforazione sismiche in quelle che Atene - e la maggior parte degli altri governi del Mediterraneo - vedono come acque greche. Questa prolungata rivendicazione marittima turca aggrava anche la controversia sul gas di Cipro. Una possibile soluzione è il gasdotto EastMed, impresa di ingegneria di 1.200 miglia, in gran parte sottomarina, collegherebbe i vicini giacimenti di gas ciprioti, israeliani e potenzialmente egiziani, quindi correrà a nord-ovest verso Cipro, Grecia e Italia, dove si unirebbe alla rete di gasdotti europea esistente. L'accordo marittimo turco-libico, tuttavia, significa che il percorso pianificato del gasdotto EastMed ora attraversa l'area rivendicata dalla Turchia. Quest'ultima mossa turca ha naturalmente provocato una  reazione diplomatica da parte della Grecia, che in una dichiarazione del ministero degli Esteri il 21 luglio ha accusato la Turchia di avere "completo disprezzo per il diritto internazionale".Allora cosa ha spinto questa ultima escalation, così come l'intervento della Turchia in Libia? La risposta può essere trovata nel graduale, ma significativo cambiamento politico ad Ankara, incarnato dalla riapertura della Basilica di Santa Sofia come moschea. "Ataturk ha presentato Losanna come una vittoria", afferma Zenonas Tziarras, ricercatore del Peace Research Institute di Oslo, che ha sede a Nicosia. “Ma la corrente ideologica in Turchia ora rappresentata da Erdogan pensava il contrario - [per loro] Losanna era la fine dell'Impero Ottomano e del Califfato, che era stato centrato su Istanbul, e quindi fu una sconfitta. Erdogan è salito al potere come espressione di questa corrente, e man mano che ha consolidato il potere, è stato sempre più in grado di esprimerlo nella sua politica estera ". Infatti, alla fine del 2017, in vista di quella che è stata annunciata come una visita conciliante in Grecia, Erdogan si è sentito abbastanza sicuro da dire in un'intervista trasmessa alla TV greca: “Penso che nel tempo tutti i trattati necessitino di una revisione. Il Trattato di Losanna, di fronte ai recenti sviluppi, necessita di una revisione ". Nel 1964 quando la tensione fra Turchia e Grecia raggiunse livelli altissimi su Cipro, un telegramma del presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson bastò per fermare la crisi. Anche nel 1996, l'arrivo di una nave da guerra statunitense disinnescò una controversia turco-greca potenzialmente grave su un isolotto dell'Egeo rivendicato da Atene come Imia e da Ankara come Kardak. Questa volta, tuttavia, mentre il Dipartimento di Stato ha esortato la Turchia a "evitare passi che aumentino le tensioni nella regione" in una dichiarazione del 20 luglio, non c'è stata alcuna risposta importante o decisiva degli Stati Uniti a un battibecco tra due alleati chiave della NATO. Anche in Libia, mentre gli Stati Uniti hanno intensificato i propri sforzi per far dichiarare un cessate il fuoco a luglio, la loro posizione è stata ampiamente problematica. "Si ha la percezione che la crescente presenza russa in Libia sia una minaccia, quindi gli Stati Uniti sono più preparati a dare il via alle mosse turche", afferma Claudia Gazzini, esperta di Libia presso l'International Crisis Group. . Il declassamento da parte degli Stati Uniti del Mediterraneo come priorità strategica è precedente alla presidenza di Donald Trump. Ma c'è una percezione diffusa nelle capitali della regione che sotto Trump, gli Stati Uniti si siano ulteriormente ritirati dal loro solito ruolo di polizia nella regione. La Germania ha cercato di sostituire gli Stati Uniti nel loro ruolo di sceriffi nella zona, ma fino ad ora gli sforzi tedeschi, come dimostra la infruttuosa visita del ministro degli esteri tedesco Heiko Maas, il 25 Agosto ad Ankara e ad Atene.. La Francia, dal canto suo, meno conciliante forse dei tedeschi, ha inviato navi militari per partecipare ad esercitazioni congiunte con la Grecia e aerei da combattimento per esercitazioni congiunte con Cipro. Alla fine sono intervenuti anche gli Stati Uniti, con Trump che ha chiamato sia Mitsotakis che Erdogan per esortarli a trovare un compromesso. Alla fine di agosto, tuttavia, la Turchia ha invece annunciato che avrebbe tenuto esercitazioni militari a fuoco vivo nella zona contesa al largo di Cipro nord-occidentale dal 29 agosto all'11 settembre. Il 28 agosto, una Merkel stanca ha invitato tutti i membri dell'UE a sostenere la Grecia. e Cipro, mentre la stessa UE ha annunciato che si riunirà per discutere le sanzioni contro la Turchia il 24-25 settembre. Gli eventi di luglio dimostrano che entrambe le parti sono ancora in grado di tornare indietro dall'orlo del conflitto. Al contrario, gli eventi di agosto sollevano la questione di quanto siano disposti a portare a termine il dialogo necessario per conciliare effettivamente le loro pretese. Soprattutto, gli eventi di questa estate indicano che in questa regione altamente strategica sta emergendo un equilibrio di potere completamente nuovo, in cui le vecchie certezze - e trattati - sono sempre più messe in discussione dalla politica autoritaria e a tratti sfrontata di Erdogan

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