Malgrado negli
ultimi anni qualcosa a livello governativo sia stato fatto, è
indubbio che il nostro paese sia da sempre un ambiente piuttosto
ostile per chi decide di creare una start up. Guardando, infatti al
mercato europeo, il 2017 è stato un anno di record considerando che
è stata investita la cifra record di 19,2 miliardi di euro, e se si
include anche il mercato israeliano, uno dei più attivi in questo
senso, si arriva a 22 miliardi. Secondo lo studio del report 2018 di
Genome Start up, la massima autorità nel campo, il nostro paese non
figura fra i primi venti paesi in cui il clima è piu favorevole al
sorgere di start up, in una classifica in cui domina ovviamente la
Silicon Valley. Il nostro paese risulta meno attrattivo persino di
Spagna e Portogallo. Eppure non si tratta certo di mancanza di
liquidità a frenare il comparto. Secondo
uno studio di Unimpresa,
che incrocia i dati di Banca
d’Italia relativi
alla raccolta delle banche, il totale della liquidità finanziaria è
passato dai 1.260,7 miliardi di novembre 2016 ai 1.315,4 miliardi di
novembre 2017. Le imprese italiane non investono, mentre le famiglie
risparmiano, tanto che le banche accumulano riserve per oltre 55
miliardi di euro solo nel 2017. Giusto per dare un’idea, i conti
correnti delle famiglie italiane hanno sforato il tetto dei mille
miliardi di euro. Si stima inoltre che i fondi delle Pmi italiane
supereranno quota 30 miliardi di euro a fine 2018. Ma allora il
problema potrebbe essere quello che non crescono start up in Italia?
Assolutamente falso considerando che secondo i dati del Ministero
dello sviluppo economico in Italia esistono circa 9000 imprese
innovative. La
relazione
annuale di Bankitalia
dimostra
tuttavia che il
58% delle 9 mila startup italiane ha come unica fonte finanziaria le
proprie risorse,
il 25% utilizza credito bancario e solo l’11 % ha ricevuto
finanziamenti da fondi di venture capital. In pratica uno startupper
su 5, tra quelli intervistati da Bankitalia, si è dichiarato
insoddisfatto delle risorse finanziarie a propria disposizione,
mentre la gran parte non risulta avere mai cercato finanziamenti di
società di venture capital o di altre istituzioni, oppure operato
campagne di raccolta di capitali di rischio attraverso portali
online. Il primo problema allora pare proprio essere quello che
mancano i finanziatori delle imprese innovative nel nostro paese.
Secondo il
terzo report di uno dei fondi di venture capital che più hanno fatto
la storia del tech, il fondo Atomico,
tra gli investitori di Skype, GoEuro e Stripe, definisce il 2017 "un
grande anno per gli investimenti in start up in Europa, ma sottolinea
la situazione invece piuttosto critica nel nostro paese. Nel suo
report “State
of European Tech”,
infatti si dimostra come l'Italia,
nonostante sia tra i Paesi più ricchi al mondo, non è stata capace
di sviluppare un ecosistema degli investimenti in innovazione
commisurato al suo potenziale. Di fronte al totale dei 19 miliardi
investiti, infatti, il nostro paese conta circa 100 milioni di
investimenti in start up innovative. Un altro dato che fa capire come
sia in ritardo il nostro paese in questo campo e quello che raccoglie
gli investimenti pro capite. In Italia, secondo i dati di
dealroom.co, azienda specializzata nella consulenza per finanziamenti
in start up ( basata ad Amsterdam, ma fondata da un italiano) è di 3
dollari. Israele (304 dollari) e Stati Uniti (246) sono su un altro
pianeta. Ma
sono lontani anche Regno Unito (59 dollari), Francia (45) e Germania
(26). Tra i Paesi presi in esame da Atomico, solo Russia e Turchia
fanno peggio. A livello internazionale, l'Italia riesce ad attirare
solo il 2,8% dei lavoratori in ambito tecnologico (è nona in
Europa). Ma è italiano il 5% degli specialisti che hanno deciso di
emigrare (ponendo l'Italia al quinto posto in questa graduatoria).
l'Italia ha un saldo negativo di talenti. Quelli che se ne vanno sono
meno di quelli che arrivano. Insomma il problema esiste e racconta di
una situazione che continua a vederci sfavoriti rispetto ai
principali competitor internazionali. I problemi sono sempre i soliti
che attanagliano questo paese, che rischia però se non fa qualcosa
subito di perdere irrimediabilmente il treno dell'innovazione,
accumulando un ritardo tale che poi diventerà sempre più difficile
recuperare. Nelle ultime settimane il Governo prova ad aprire una
seconda fase in tema di innovazione d’impresa. La prima è stata
introdotta dal
Decreto-legge
179 del 2012,
nota anche come “Startup
Act”.
La policy punta appunto a colmare questo gap, creando un ambiente più
favorevole alle startup innovative, attraverso una serie di strumenti
complementari, tra cui figurano gli strumenti di costituzione rapida
e gratuita, le procedure di fallimento semplificate, incentivi
fiscali per gli investimenti in equity e un sistema pubblico di
garanzia per l’accesso al credito bancario. Poi c'è da registrare
quello affermato dal vice premier Luigi Di Maio circa la creazione
di una piattaforma pubblica, garantita dallo Stato, per stimolare gli
investimenti in capitale di rischio a favore dell’innovazione
tecnologica. Il Governo giallo verde ha assicurato che
che entro dicembre sarà lanciato un fondo di venture capital, sul
modello francese, per investire sulle startup italiane. Si vedrà ma
forse questo potrebbe non bastare per sbloccare gli investimenti in
start up innovative, forse occorre anche un maggior impegno di
istituzioni universitarie, incubatori, strutture e investimento a
livello privato, che possa creare quel clima favorevole che per
esempio in Francia sta determinando un grande sviluppo di nuove
startup innovative negli ultimi due anni, clima favorito anche dalla
creazione del più grande campus di startup al mondo alla periferia
di Parigi . Anche perchè anche in un clima del genere sono molte le
eccellenze che riescono comunque a distinguersi, come Satispay,
Credimi, Smartika, Soisy, Soldo e Moneyfarm nel fintech. Lanieri,
Sixthcontinent, Tannico, Interwine, Velasca per l' ecommerce. Quomi,
My cooking box per quanto riguarda il food, solo per citarne
qualcuno.
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