giovedì 1 aprile 2021

NASCE IL PRIMO KIT ANTISOFISTICAZIONE OLIO EXTRAVERGINE

 


Nasce il primo kit domestico per scoprire difetti, frodi e contraffazione di uno degli alimenti principi sulla tavola degli italiani, l’olio extravergine di oliva. Questa, infatti, è una iniziativa dell’ organizzazione dei produttori, Assoproli, in sinergia con ACU, Associazione Consumatori Utenti,  per favorire la conoscenza del prodotto principe della Dieta Mediterranea e sopratutto combattere il fenomeno sempre più diffuso delle frodi e delle contraffazioni. Il kit, composto da 1 bottiglietta di olio extravergine d’oliva di qualità e 3 bottigliette di oli con difetti, è associato ad un QR code che riporta ad un videocorso online utile a far comprendere le differenze tra i quattro prodotti. L’obiettivo, come dicono dall’associazione, è quello di formare i consumatori alla qualità per contrastare il consumo di oli spacciati per extravergine ma che in realtà contengono imperfezioni importanti. L’olio extravergine d’oliva, insieme al vino, è il prodotto più soggetto a frodi e contraffazioni che, secondo le stime di Assoproli, ogni anno tolgono ai produttori e alle industrie che puntano sulla qualità del prodotto oltre 200 milioni di euro. I controlli analitici di ICQRF ( istituto centrale repressione frodi) sui prodotti dell’agricoltura biologica evidenziano, inoltre, che il settore dell’olio d’oliva è quello che presenta la percentuale più alta di irregolarità, con un 11,4%, contro il 3,7% del vitivinicolo. Il kit sarà disponibile nei prossimi giorni in tutti i frantoi di Assoproli oltre che sul portale dell’associazione dei produttori (www.assoproli.it). L’ associazione rappresentata da circa 34 mila produttori associati e 20 cooperative olivicole dotate di moderni frantoi, è tra i maggiori organismi cooperativi italiani del comparto olivicolo-oleario. “Dobbiamo impegnarci direttamente – dice il presidente di Assoproli, Pasquale Mastrandrea – come mondo della produzione, per far capire ai consumatori quali sono i profumi e i sapori di un vero olio extravergine d’oliva, di qualità, a differenza di un olio che è extravergine solo in etichetta”. “Educare e promuovere il consumo di un olio di qualità è il passo per dare valore a tutta la filiera dell’olio extravergine d’oliva italiana, composta da tanti bravi produttori e ottime aziende che puntano al meglio – spiega il presidente di Oliveti d’Italia, Nicola Ruggiero. Abbiamo il dovere di compiere queste azioni culturali per far capire cosa è davvero un extravergine e quali sono i benefici per la salute e per l’organismo”. Con questo facile sistema si cerca mettere un argine al problema della contraffazione di olio di oliva italiano. Come evidenziano da Ismea, infatti, il prezzo medio all’origine delle produzioni italiane è indicativamente il doppio rispetto a quello dell’olio spagnolo, greco e tunisino. Questa evidenza può spingere operatori malintenzionati a falsificare prima di tutto l’origine della merce. Sempre secondo i dati Ismea poi nel 2020 la produzione di olio di oliva è calata del 30%, con la Puglia che registra addirittura un - 43% per le note problematiche legate alla xylella, a cui ancora non si riesce a porre rimedio. A pesare è stato soprattutto il crollo delle vendite per la chiusura del canale della ristorazione, che rappresenta uno sbocco importante per l’olio Made in Italy. Ma la pandemia fa sentire i suoi effetti anche con la necessità di garantire una raccolta sicura con il rispetto rigoroso delle norme anti contagio. Ma il problema della contraffazoine e della scrasa qualita degli oli in commercio ha sicuramente inciso sulla scarsa produttività italiana “A incidere sulle imprese olivicole italiane oltre alla pandemia e ai problemi climatici, è stato  anche il crollo del 44% dei prezzi pagati ai produttori, scesi a valori minimi che non si registravano dal 2014. Un trend causato – accusa Coldiretti – dalla presenza sul mercato mondiale di abbondanti scorte di olio “vecchio” spagnolo, spesso pronto a essere spacciato come italiano a causa della mancanza di trasparenza sul prodotto in commercio, nonostante sia obbligatorio indicare l’origine per legge in etichetta dal primo luglio 2009, in base al Regolamento comunitario n.182 del 6 marzo 2009.”


martedì 23 marzo 2021

COME SARA' L' ECOMMERCE NEL 2021

 




Nel 2020, a causa delle restrizioni e delle chiusure imposte dell’emergenza sanitaria, i consumatori si sono rivolti sempre di più al digitale e le piccole e medie imprese hanno dovuto adeguarsi alle nuove richieste, affiancando ai punti vendita fisici quelli online, alle vetrine le pagine e i profili social. Soprattutto, grazie alla maggiore flessibilità e praticità, molti trend 2020 si sono consolidati trasformando radicalmente le abitudini di acquisto dei consumatori e dando vita a una rivoluzione che continuerà anche nel 2021. “A causa della pandemia, molte aziende sono dovute correre ai ripari dotandosi di una presenza e-commerce per mantenersi in attività e per continuare a rimanere in contatto con i propri clienti, mentre le realtà già presenti online hanno potuto capitalizzare gli investimenti del passato e, in diversi settori, han visto una crescita esponenziale delle vendite”, spiega Mirella Bengio, Head of Partnerships Italia di PayPlug, la soluzione di pagamento online per l’e-commerce concepita per le piccole e medie imprese. “Ora, in un ambiente sempre più competitivo, la sfida per le attività italiane sarà far tesoro delle lezioni impartite dal 2020 per fidelizzare e attrarre nuovi clienti nel 2021, perché un buon prodotto non sarà più sufficiente. Per distinguersi sarà necessario puntare sull’esperienza offerta al cliente, creando una connessione tra i vari canali, fisici e digitali, offrendo servizi che soddisfino le aspettative e adottando un approccio il più possibile flessibile, responsabile e che guardi al locale”. Per aiutare gli esercenti di piccole e medie dimensioni ad anticipare le tendenze e a cogliere le nuove opportunità che si presenteranno quest’anno, PayPlug ha individuato i 10 trend che caratterizzeranno l’e-commerce nel 2021, dalla fidelizzazione all’omnicalità.

1. La fidelizzazione, una sfida sempre più importante

Il primo semestre del 2020 è stato segnato da un boom di cyber-acquirenti: due milioni di italiani in più hanno utilizzato un servizio e-commerce. La sfida, in un contesto di continue limitazioni e chiusure, è capitalizzare questo bacino di nuovi clienti, fidelizzandoli. Sicuramente in questo senso le iniziative come quella dell'italianissima Coinshare, piattaforma di community shopping in bloclchain con altissimi tassi di crescita proprio nel periodo del lockdown, mostrano come questa sia una idea assolutamente vincente, sia per gli utenti che per le imprese.  Nel 2021 si prevede una crescita di investimenti marketing del 30% proprio con l'obiettivo di cogliere due milioni di nuove opportunità di business legate alla condivisione e alla fidelizzazione della clientela 

2. L’esplosione del click & collect

Sempre in conseguenza delle limitazioni vigenti, il click & collect sarà il leitmotiv delle esperienze d'acquisto. Dopo il + 349% di questa modalità di acquisto durante il lockdown [3], il trend si consoliderà grazie alla grande flessibilità e comodità per chi vive in smart working.

3. La fine del cash

Il cashless sarà sempre più predominante. Abitudini modificate, incentivi e comodità porteranno l'attuale 48% di italiani che hanno ridotto l'uso del contante a un solido 80% di clienti cashless only Senza contare che la probabile diffusione delle valute digitali potrebbe rappresentare un nuovo incentivo alle transazioni cashless.

4. Il successo dei marketplace locali

La vicinanza e la volontà di sostenere i business locali hanno generato un grande cambiamento e crescita dei marketplace locali. I piccoli commercianti che si sono riuniti in mercati virtuali hanno registrato un volume di affari in crescita del 50% e trovato il plauso dei concittadini [5]: 6 su 10 continueranno a supportare i piccoli esercenti tramite questo strumento .



5. La crescita del re-commerce

Sano per l'ambiente e per il portafoglio, il 2020 è stato sotto il segno del re-commerce: due terzi degli italiani hanno comprato o venduto un prodotto di seconda mano . Un modello che si consolida e coinvolge anche brand tradizionali. Anche per questo, nel 2021 è prevista una crescita pari al +42% sul mercato globale dell’usato online e si stima che l'usato online doppierà i numeri del fast fashion entro il capodanno 2030

6. L’omnicanale diventa la norma

Ogni portale è diventato portone: ben il 92% degli italiani ha utilizzato diversi canali coordinati e intercambiabili per un acquisto (e-commerce, social, negozio fisico). L'esperienza ha conquistato quasi tutti e ora il 69% degli italiani online pretende un'esperienza d'acquisto senza ostacoli a prescindere dai canali d'acquisto .

7. Pagamento a rate, un nuovo standard

Consegna a domicilio, servizio post vendita e pagamento rateale anche per piccole cifre sono ormai dei must-have degli acquisti online. In particolare, le incertezze del momento unite alla comodità e sicurezza dei pagamenti rateali fanno sì che questa modalità di pagamento sia richiesta da 4 italiani su 10

8. Storytelling, la forza delle piccole imprese

Artigiani e piccoli commercianti sono le attività che animano e caratterizzano ogni paese e città: così, vedere le saracinesche chiuse per lunghi periodi ha risvegliato l'interesse dei consumatori verso i commercianti di prossimità e il 56% dei concittadini [11] afferma di voler acquistare di più dai piccoli commercianti. Il punto centrale sono la loro storia e i loro volti, elementi fondamentali per competere con giganti del web che fanno dello storytelling dell'esercente un potente strumento di marketing e vendita.

9. L’ iperconnessione dei consumatori

I prodotti da e-commerce non hanno più barriere: di necessità si è fatta virtù ed è esploso il trend di acquisto di prodotti "semplici" come alimentari e piccolo artigianato locale. Se nel 2019 si stimava che il settore Food&Grocery potesse arrivare nel 2025 a 2,7 miliardi di euro, ora si stima di raggiungere questa cifra entro capodanno 2021

10. Microinterazioni

L'uomo è un animale sociale e ha nel DNA il bisogno di interagire: così, in un contesto di distanza fisica, diventa centrale il medium. Le micro interazioni online - dallo scroll della pagina ai download di documenti - e il coinvolgimento emotivo sono la chiave di volta dell'e-commerce: un'interfaccia utente adeguata può portare a convertire il 200% di clienti in più

martedì 9 marzo 2021

PRODOTTI DOP ED IGP IN PERICOLO IN CINA?

 

La Cina sembra porre ostacoli alla promozione dei prodotti Dop e Igp, mettendo a rischio l’attività di promozione da parte dei Consorzi di Tutela italiani, con conseguenti aumenti dei costi. La preoccupazione dei Consorzi che svolgono attività di promozione delle in Cina, come sottolinea Origin Italia - l’Associazione Italiana Consorzi Indicazioni Geografiche - è deflagrata in seguito ad alcune segnalazioni di Consorzi associati, ai quali sarebbe stato richiesto dalle autorità cinesi - in virtù di una legge del 2017 nei confronti delle organizzazioni noprofit, tra le quali figurerebbero anche i Consorzi di Tutela - di dotarsi di un rappresentante legale nella Repubblica Popolare Cinese per poter svolgere le normali attività, ovvero, per i Consorzi di Tutela, quella di promozione. Una novità che sarebbe in netto contrasto con la recente entrata in vigore (1 marzo 2021) dell’Accordo stipulato tra l’Unione Europea e la Repubblica Popolare Cinese sulla cooperazione e la protezione dall’imitazione e dall’uso improprio della denominazione di 200 Indicazioni Geografiche europee e cinesi.
Origin Italia - dopo aver già contattato Mipaaf e Agenzia ICE - si è immediatamente attivata scrivendo al Ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli e al Ministro degli Affari Esteri Luigi Di Maio, per ottenere con urgenza un chiarimento ed informazioni sulla modifica della disciplina dei Consorzi di Tutela delle Indicazioni Geografiche nella Repubblica Popolare Cinese. “Se dovesse essere confermato questo cambiamento di disciplina – ha sottolineato il presidente Origin Italia, Cesare Baldrighi - i Consorzi di Tutela rischierebbero di subire una interruzione repentina delle attività promozionali in territorio cinese, con gravi ripercussioni in termini di visibilità del made in Italy ed esacerbando una situazione già critica a causa dei gravi danni riconducibili alla pandemia da Covid-19, che hanno colpito principalmente le attività promozionali dei Consorzi come fiere ed esposizioni, essenziali per la crescita e la tutela delle Indicazioni Geografiche. Questa decisione - aggiunge Baldrighi - oltre ad oberare i Consorzi di ulteriori incombenze e costi da sostenere ancora non chiari, potrebbe anche ledere l’autonomia delle iniziative consortili operanti in territorio cinese, allungarne le tempistiche e creare un vuoto nella tutela e nella promozione delle Indicazioni Geografiche”. A questo punto, quindi, i Consorzi italiani attendono chiarimenti da parte del Governo e di sapere quali misure vorrà mettere in atto per impedire che possano essere danneggiati i prodotti d’eccellenza del made in Italy, in un mercato cosi interessante come quello cinese. La preoccupazione interessa quei prodotti, come per esempio i formaggi o il vino, che in Cina hanno trovato un importante mercato di socco per i loro prodotti di nicchia elevata, che adesso potrebbero un inaspettato stopo come dice il presidente della Confederazione Nazionale Consorzi Volontari Tutela Denominazioni Vini Italiani ( Fedredoc), Riccardo Ricci Cubastro “L’Amministrazione cinese sta interpretando in modo estensivo una norma di legge del 2017, obbligando quindi i Consorzi di tutela ad indicare un referente legale cinese per continuare le attività promozionali già programmate. In sintesi, i Consorzi dovrebbero riconoscere nell’immediato che ad essi stessi vengano applicate le norme nazionali in materia di Organizzazioni non Governative; il che equivarrebbe a dichiarare che le attività promozionali in corso di svolgimento e ancora da realizzare sul territorio cinese costituirebbero una violazione della legge nazionale senza la sottoscrizione di una lettera di intenti”. Sempre dalla Federdoc fanno notare come tutto ciò appaia una richiesta illegittima, in quanto costituirebbe una barriera non tariffaria imposta in modo totalmente arbitrario dal Governo cinese; che inoltre paventa l’applicazione di sanzioni del tutto irragionevoli nei confronti Consorzi di tutela del vino, quali l’esclusione per un quinquennio da qualsiasi attività promozionale sul proprio territorio. Una decisione, quella del Governo Cinese, che sconcerta anche perché giunge a pochi giorni di distanza dall’entrata in vigore dell’accordo bilaterale UE – Cina dello scorso 1° Marzo, riguardante proprio la tutela e la protezione dei prodotti a Indicazione Geografica.
Una contraddizione che apri molti dubbi rispetto all’accordo, raggiunto con troppa fretta e er volonta della cancelliera tedesca Merkel, che forse era maggiormente interessata per il suo paese ad altre dinamiche dello scambio commerciale fra Ue e Cina, senza preoccuparsi troppo di settori come quelli del food, in cui sicuramente la Germania ha meno interessi rispetto ad Italia o Francia. “Abbiamo appreso – aggiunge sempre Ricci Curbastro – che le istituzioni cinesi stanno già applicando la norma in oggetto anche ai Comitati Interprofessionali del vino francesi e ad altri soggetti che si occupano di promozione dei vini europei a IG. E’ una situazione che va risolta quanto prima e intanto Federdoc chiede ai Ministeri interessati di voler verificare con estrema urgenza la possibilità di applicare delle flessibilità ai Consorzi che non riescono, per causa di forza maggiore, a realizzare le proprie attività in Cina. Il che significa non solo non applicare penalità ma anche di dare la possibilità, per non perdere i fondi, di una modifica immediata dei progetti di promozione con conseguente riallocazione delle risorse in azioni da svolgersi in altri Paesi




sabato 6 marzo 2021

AGRICOLTURA SMART VALE OLTRE 500 MILIONI DI EURO NEL 2020

 

L’emergenza Covid19 ha messo fortemente sotto stress il settore agroalimentare italiano, diminuendo la disponibilità di manodopera, aumentando la pressione sulla logistica distributiva, riducendo le vendite nel canale Ho.Re.Ca e la fiducia dei consumatori ( circa 11,5 miliardi di fatturato perso secondo un recente studio della coldiretti). Queste difficoltà, soprattutto durante il primo lockdown, hanno rallentato anche il mercato dell’Agricoltura 4.0, che però è ripartito di slancio nella seconda parte dell’anno, raggiungendo un valore di 540 milioni di euro nel 2020 (circa il 4% del mercato globale) e registrando una crescita del 20% rispetto all’anno precedente, in linea con l’andamento pre-pandemia. La spesa è trainata dalle soluzioni di Agricoltura di Precisione – gli strumenti a supporto delle attività in campo – come i sistemi di monitoraggio e controllo di mezzi e attrezzature (36% del mercato), ed i macchinari connessi (30%).
Sono 538 le soluzioni di Agricoltura 4.0 disponibili per il settore agricolo in Italia (oltre 100 in più rispetto al 2019), che usano prevalentemente sistemi di Data Analytics, piattaforme o software di elaborazione e Internet of Things, e trovano applicazione nelle fasi di coltivazione, semina e raccolta dei prodotti in diversi comparti, fra i quali emergono l’ortofrutticolo, il vitivinicolo e il cerealicolo. Ben il 60% delle aziende agricole utilizza almeno una soluzione digitale, e il 38% ne impiega due o più, ma solo il 3-4% della superficie agricola è coltivata con strumenti 4.0. Il digitale è sempre più presente anche nell’ambito della tracciabilità alimentare, con 157 soluzioni. Avanzano le tecnologie per la raccolta, la valorizzazione e la condivisione dei dati lungo la filiera, come le soluzioni Mobile (+65% rispetto al 2019), l’analisi avanzata dei dati (+57%) e le piattaforme di elaborazione (+60%). Continua la crescita della Blockchain, presente nel 18% delle soluzioni di tracciabilità (+59%), anche se con un ritmo più lento rispetto al 2019. L’agroalimentare è il terzo settore per numero di progetti pilota e operativi di Blockchain a livello internazionale, avviati dalle imprese per ragioni commerciali, migliorare l’efficienza della supply chain e per una maggiore sostenibilità ambientale o sociale.
Questi sono alcuni dei dati emersi dalla ultima ricerca realizzata dall'Osservatorio Smart Agrifood dell’Osservatorio del Politecnico di Milano “Smart Agrifood: condivisione e informazione, gli ingredienti per l’innovazione” presentati Venerdi 5 Marzo. “Il settore agroalimentare ha superato la prova della pandemia, mostrandosi dinamico e aperto all’innovazione, ben consapevole dei benefici che l’applicazione delle tecnologie digitali può apportare in termini di efficienza, competitività, sostenibilità della filiera – ha commentato Andrea Bacchetti, Direttore dell’Osservatorio Smart Agrifood -. Nonostante questo, soltanto una piccola parte della superficie agricola è oggi coltivata con strumenti 4.0. Per sbloccare questo potenziale ancora inespresso sarà necessario lavorare sull’interoperabilità e l’interconnessione delle soluzioni, lo sviluppo di competenze specifiche e la valorizzazione e condivisione dei dati”.

MACCHINE AGRICOLE AL TOP

Il mercato italiano dell’Agricoltura 4.0 è trainato dai produttori di macchine agricole e ausiliari, responsabili del 73% del fatturato, seguiti dai fornitori di soluzioni IT e tecnologie avanzate (in particolare Internet of Things) con una quota del 17%. Le soluzioni che attirano più investimenti sono quelle per il monitoraggio e il controllo di mezzi e attrezzature agricole (36% del mercato) e i macchinari connessi (30%). Nei software gestionali si concentra il 13% della spesa, i sistemi per il monitoraggio da remoto di coltivazioni e terreni coprono l’8%, il 5% è rappresentato da sistemi di supporto alle decisioni, il 4% da soluzioni per la mappatura di coltivazioni e terreni, il 2% da robot per le attività in campo.
Oltre alle aziende agricole, anche le imprese della trasformazione alimentare sono aperte all’innovazione e alla sperimentazione di soluzioni 4.0, anche se ancora spesso legate a tecnologie di base. L’87% delle 135 imprese analizzate dall’Osservatorio applica o sperimenta almeno una tecnologia digitale, principalmente nei processi distributivi e produttivi, fra le quali spiccano i software di gestione dei fornitori e del magazzino (75%) e i dispositivi portatili (57%). Non mancano, però, realtà che si concentrano su tecnologie più innovative: soprattutto Data Analytics (il 19% le applica, il 9% le sperimenta), Cloud (18% e 10%), IoT (16% e 10%), Advanced Automation (13% e 3%) e Blockchain (2% e 6%).

BLOCKCHAIN E TRACCIABILITA'


La tracciabilità alimentare è uno degli ambiti in cui le aziende stanno maggiormente utilizzando il digitale (89% del campione), che genera i maggiori benefici per il settore e in cima alle preferenze di investimento. Sono 157 le soluzioni digitali per la tracciabilità alimentare offerte da 125 aziende, equamente divise fra strumenti tradizionali (come i gestionali o i software verticali fortemente specifici per la rintracciabilità dei lotti) e innovativi.
Capitolo a parte poi quello dell’utilizzo della blockchain per il settore, sopratutto per quanto riguarda la tracciabilità di prodotto. L’agroalimentare si conferma il terzo settore per numero di progetti a livello internazionale, pari al 7% delle 1.242 iniziative considerate, anche se solo il 31% sono progetti pilota e appena l’8% sono iniziative realmente operative, contro il 61% di semplici annunci. Le imprese sperimentano la Blockchain per ragioni commerciali e di marketing (nel 61% dei casi), per migliorare l’efficienza della supply chain (45%) e per una maggiore sostenibilità ambientale e sociale (24%).


martedì 2 marzo 2021

CYBERSECURITY IN ITALIA NEL 2020: I DATI

 



Il 2020 è stato un anno di emergenza anche sul fronte della cybersecurity. Per il 40% delle grandi imprese sono aumentati gli attacchi informatici rispetto all’anno precedente. Questo è quanto emerge dall’ultimo report dell’Osservatorio del Politecnico di Milano sulla cybersecurity, presentato meta Febbraio 2021. “La diffusione improvvisa e capillare del remote working e del lavoro agile, l’uso di dispositivi personali e reti domestiche e il boom delle piattaforme di collaborazione hanno infatti aumentato le opzioni di attacco a disposizione degli attaccanti. L’impatto economico della pandemia ha costretto le imprese italiane a fronteggiare le aumentate sfide di sicurezza con budget ridotti: il 19% ha diminuito gli investimenti in cybersecurity (contro il 2% del 2019) e solo il 40% li ha aumentati (era il 51% l’anno precedente). Ma per oltre un’impresa su due (54%) l’emergenza è stata un’occasione positiva per investire in tecnologie e aumentare la sensibilità dei dipendenti riguardo alla sicurezza e alla protezione dei dati. Nel complesso, la crisi legata al Covid19 ha rallentato la crescita del mercato della cybersecurity ma non l’ha fermata. Nel 2020 la spesa in soluzioni di cybersecurity ha raggiunto un valore di 1,37 miliardi di euro, in crescita del 4% rispetto all’anno precedente (nel 2019 il mercato aveva segnato un +11% rispetto al 2018), di cui il 52% è rappresentato dalle soluzioni di security e il 48% dai servizi. Gli investimenti in cybersecurity sono legati principalmente alla gestione dell’emergenza, come testimonia la crescita della spesa in Endpoint Security. Cloud, Smart Working e Big Data sono i trend del digitale che hanno maggiormente influenzato la gestione della sicurezza negli ultimi dodici mesi. Degni di nota anche Operational Technology (OT) Security, che riscontra un’accelerazione degli investimenti, e Artificial Intelligence, utilizzata in ambito cybersecurity dal 47% delle aziende.

I risultati sono stati presentati in un convegno online dal titolo “Cybersecurity Odyssey: la chiave per evolvere”. Nonostante un mercato in crescita e il ruolo sempre più strategico della cybersecurity, le imprese presentano ancora una scarsa maturità organizzativa. Solo nel 41% la responsabilità della sicurezza informatica è affidata a un CISO e ancora nel 38% dei casi non è prevista nessuna comunicazione al Board sull’argomento. La gestione della data protection è più evoluta, anche per effetto della spinta normativa, con il 69% delle imprese che ha inserito un Data Protection Officer (DPO) in organico e il resto che si avvale di figure esterne. “Il 2020 è stata una vera e propria odissea, con un aumento senza precedenti degli attacchi informatici, la necessità di riorganizzarsi per gestire l’improvviso boom dello smart working e la razionalizzazione del budget a disposizione per affrontare le sfide di sicurezza a causa del grave impatto economico della pandemia – afferma Alessandro Piva, Direttore dell’Osservatorio Cybersecurity & Data Protection -. Nonostante il contesto negativo, il mercato non ha smesso di crescere e la maggior parte delle imprese ha colto l’occasione per investire, rinnovarsi e aumentare la sensibilità dei dipendenti sul tema. La cybersecurity può essere la chiave per evolvere e gestire i cambiamenti in atto, ma deve essere gestita in modo più maturo e strategico”. Gabriele Faggioli, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Cybersecurity & Data Protection ribadisce invece come “Anche nel 2020, nonostante l’emergenza sanitaria, sono stati fatti importanti passi avanti nell’ambito cybersecurity. Il mercato italiano della cybersecurity, però, è ancora limitato in rapporto al PIL, con un’incidenza di appena lo 0,07% nel 2019, circa 4-5 volte in meno rispetto ai paesi più avanzati. E dalla ricerca emerge anche la necessità di rafforzare il presidio delle normative, anche considerando le sanzioni comminate dalle Autorità competenti e gli importanti data breach di cui si ha avuto notizia nel corso dell’anno”. La spesa si divide quasi a metà fra le soluzioni di security, col 52% del mercato, e i servizi professionali e gestiti, col 48%. Le soluzioni su cui le aziende investono maggiormente sono sistemi per il monitoraggio degli eventi di sicurezza (16%), per gestire e monitorare l’accesso degli utenti a dati e applicazioni (14%), per valutare la vulnerabilità e la sicurezza di sistemi, applicazioni o reti (14%), per analizzare l’esposizione al rischio cyber dei sistemi aziendali e valutarne la conformità agli standard di sicurezza (12%) e soluzioni che monitorano il traffico di rete per identificare e bloccare accessi non autorizzati (11%). Fra i servizi, il 51% della spesa è dedicato ai Professional Services, i servizi offerti da fornitori esterni all’azienda per un progetto specifico, mentre il 49% riguarda i Managed Services, i servizi offerti in modo continuativo da fornitori esterni per la manutenzione dei sistemi informativi aziendali. Il Cloud è il trend che più ha influenzato la gestione della cybersecurity nelle imprese, insieme allo Smart Working e ai Big Data. Nell’ultimo anno sono emersi servizi Cloud di tipo edge, che estendono i confini della nuvola, ma le aziende lamentano ancora scarsa consapevolezza delle minacce da parte del top management (74%), un aumento degli attacchi più evidente rispetto ad altri ambiti (64%) e difficoltà a relazionarsi con i cloud service provider perché hanno poco potere negoziale (74%) o faticano a fare security assessment (66%). Fra le altre tendenze più rilevanti, l’accelerazione degli investimenti in OT security, a cui però non si accompagna un’adeguata maturità: solo un’impresa su due ha introdotto policy di OT security e meno di un terzo prevede attività di formazione specifiche sulla materia. L’Artificial Intelligence si conferma un tema di interesse per le aziende, che la impiegano in ambito cybersecurity nel 47% dei casi (ma solo nel 14% in modo significativo) soprattutto per identificare nuove minacce (68%) e per il monitoraggio del comportamento di sistemi e utenti al fine di rilevare anomalie (66%). Cresce anche l’importanza della Supply Chain security, le attività di protezione dei sistemi e delle reti di terze parti, ma finora solo il 13% del campione ha messo in campo strumenti tecnici e predisposto un presidio organizzativo formale. Le realtà più piccole hanno faticato ad adeguarsi ai nuovi modelli di organizzazione del lavoro imposti dall’emergenza. Secondo il 59% delle PMI intervistate dall’Osservatorio, l’uso di device personali e reti domestiche ha esposto le aziende a maggiori rischi di sicurezza, e per il 49% sono aumentati gli attacchi informatici. Sebbene la cybersecurity inizi a farsi strada tra le priorità, le PMI faticano ancora a tradurre la percezione in concretezza: solo il 22% ha previsto investimenti in sicurezza per il 2021, il 20% li aveva previsti ma ha dovuto ridurre il budget in seguito all’emergenza, un terzo non ha un budget da dedicare (32%) e oltre un quarto non è interessato all’argomento. Chi investe si concentra soprattutto sulla componente tecnologica: il 41% intende investire in soluzioni di sicurezza di base, come antivirus o firewall, il 37% guarda a soluzioni più sofisticate, come sistemi di Intrusion Detection o Identity & Access Management. Per quanto riguarda la gestione della cybersecurity, il 32% del campione ha investito in formazione su sicurezza e data protection ai dipendenti, il 28% si è rivolto a consulenti per migliorare la gestione della cybersecurity in azienda, il 18% ha introdotto competenze dedicate come Security Analyst o Security Administrator e il 15% ha stipulato polizze assicurative per il trasferimento del rischio cyber. Ci sono però ancora molte sfide da affrontare per imprese e istituzioni, a partire dal rafforzamento della compliance. Un’altra sfida “cruciale” è quella che riguarda il difficile rapporto tra innovazione tecnologica e data protection. In un’era volta alla digitalizzazione e al progresso tecnologico è necessario bilanciare saggiamente le opportunità offerte dalle nuove tecnologie con gli strumenti di tutela messi a disposizione dal framework normativo in materia di protezione dei dati: la trasformazione digitale e l’innovazione tecnologica, in assenza di adeguate misure di intervento, produrrebbero effetti negativi senza apportare alcun beneficio.

lunedì 11 gennaio 2021

LA CENSURA DEI COLOSSI DEL WEB


LA CINA È LA DITTATURA SOCIAL

All'inizio di dicembre, in mezzo alle crescenti tensioni tra Australia e Cina, il primo ministro Scott Morrison ha pubblicato una dichiarazione sulla piattaforma di social media cinese WeChat per esprimere la sua indignazione per un tweet incendiario di un portavoce del ministero degli Esteri cinese. Entro un giorno, WeChat, che controlla regolarmente i contenuti sensibili sulla sua piattaforma, aveva bloccato la posta di Morrison, apparentemente per aver violato le politiche dell'azienda. Non è stato l'unico caso in cui un funzionario straniero è stato censurato su una piattaforma di social media cinese. Gli autori di reato più importanti sono WeChat, il più grande sito di social media in Cina, con oltre 1 miliardo di utenti attivi, e Weibo, una piattaforma di microblogging simile a Twitter. Siti come questi sono l'unico modo per i governi stranieri e i loro diplomatici di raggiungere il pubblico cinese online, poiché il cosiddetto Great Firewall blocca l'accesso a quasi tutte le piattaforme di social media straniere, inclusi Twitter e Facebook. Ecco che alla luce di quello accaduto con Trump, che dopo i fatti di Capitol Hill è stato bandito da tutti i principali social, la questione pone parecchi interrogativi a riguardo, che dovrebbero far riflettere molto chi ha applaudito a prescindere la decisione dei colossi del tech di censurare quello che è ancora il presidente americano in carica. La censura dei contenuti esteri in Cina non è una novità, ovviamente, ma la portata e la frequenza della pratica sono aumentate negli ultimi anni. Un rapporto del 2018 dell'Australian Strategic Policy Institute ha evidenziato numerosi esempi, in particolare nel maggio 2018, quando l'ambasciata degli Stati Uniti in Cina ha emesso una risposta su Weibo alla richiesta di Pechino che le compagnie aeree straniere identificassero Taiwan, Macao e Hong Kong come "territori cinesi". Il post dell'ambasciata, che criticava le "sciocchezze orwelliane" della Cina, è rimasto visualizzabile su Weibo ma solo per gli utenti con un collegamento diretto. La funzione di condivisione è stata disattivata e le risposte sono state accuratamente adattate per includere solo quelle che riflettevano la posizione del governo.

I DIPLOMATICI CENSURATI DAI SOCIAL CINESI

Il 2020 è stato forse l'anno peggiore per i funzionari stranieri che hanno cercato di trasmettere il loro messaggio direttamente al popolo cinese. Quando lo scorso giugno sono scoppiati violenti scontri lungo il confine cinese con l'India, la dichiarazione del primo ministro Narendra Modi sulla questione è stata rimossa da WeChat. Allo stesso modo, la confutazione dell'ambasciata britannica in Cina alle affermazioni dei media statali cinesi sulle proteste a favore della democrazia a Hong Kong è stata ritirata. Questa tendenza recente indica "un approccio molto più assertivo in generale da parte di Pechino, che è coerente con l'approccio sempre più assertivo della Cina al mondo in generale negli ultimi due anni, su molti fronti", ha detto Josh Kurlantzick, senior fellow per il sud-est asiatico al Consiglio per le relazioni estere. Ma quello che accade in Cina da anni mette appunto in primo piano la questione dell’ informazione e dell’uso che di essa viene fatta sui e dai social e del loro controllo, che in Cina è operato da un governo che certo non si può definire liberale, mentre negli Usa sta diventando sempre piu una questione di pochi privati, che possono arrogarsi il diritto di decidere autonomamente cosa è conveniente che venga pubblicato o cosa non lo sia. La questione non è tanto nel merito, perché si può sicuramente e anzi si deve censurare comportamenti che possono istigare alla violenza o a qualsiasi forma di pregiudizi di razza, genere o sesso, ma che a farlo siano dei privati cittadini e non una autorità terza è questione che rischia di assimilare democrazie avanzate come quella americane o quelle europee a regimi certo non democratici come appunto quello cinese. La capacità unica del governo cinese di controllare i contenuti su Weibo, WeChat e altre piattaforme ha permesso un potere di controllo su ciò che le ambasciate e i governi stranieri possono dire in Cina, pur avendo libero sfogo all'estero, dove il proprio personale deve affrontare poche restrizioni a ciò che può dire su Twitter e Facebook ( già proprio gli stessi social che invece hanno censurato e bandito dalle proprie piattaforme il presidente americano). Fino a poco tempo, questa asimmetria non era una delle principali preoccupazioni, semplicemente perché la presenza della Cina sulle piattaforme dei media stranieri era minima. Ma negli ultimi anni Pechino ha compiuto uno sforzo concertato per espandere il proprio raggio d'azione su Twitter. Come ha documentato il ricercatore francese Antoine Bondaz, il numero di account Twitter detenuti da diplomatici cinesi è cresciuto di quasi quattro volte tra luglio 2019 e luglio 2020, da 38 a 151. Oggi, centinaia di diplomatici cinesi, ambasciate e personale dei media statali pubblicano regolarmente contenuti su Twitter e Facebook come parte di un'operazione di propaganda sempre più sofisticata.  L'anno scorso, teorie cospirative sulle origini della pandemia COVID-19 sono apparse frequentemente su account del governo cinese verificati, come quando Zhao Lijian, un portavoce del Ministero degli Affari Esteri cinese, ha affermato senza fondamento su Twitter che l'esercito americano avrebbe potuto portare il coronavirus a Wuhan. Ma chiaramente questi post non sono stati censurati dai colossi del tech, al contrario di molti di Trimp, anche prima dei tristi fatti legatio all’assalto del Campidoglio. Forse perche, a pensare maliziosamente, il mercato cinese è troppo importante per loro per rischiare di mettersi contro il governo cinese e subire certe ritorsioni sul piano economico. Il governo degli Stati Uniti non ha il potere di costringere Twitter o Facebook a rimuovere i post dall'ambasciata cinese a Washington, né può contestare le azioni di Weibo o WeChat in Cina. Per molti anni l'ambasciata degli Stati Uniti a Pechino è stata la fonte più affidabile di dati sull'inquinamento atmosferico nel paese, mentre le ambasciate canadese e svizzera hanno ospitato artisti di fama mondiale come Ai Weiwei, che altrimenti non sarebbe in grado di esporre pubblicamente le sue opere a causa del suo passato critiche al governo cinese. Ora però proprio il gran proliferare dei social e della comunicazione sempre piu diffusa sulle loro piattaforme anche di comunicazioni politiche e diplomatiche ha dato alla censura cinesi un nuovo e prezioso alleato. In risposta alle pressioni per diventare più dure sui funzionari cinesi, Twitter e Facebook sono diventati più attivi nella rimozione delle reti di bot pro-Cina e ora etichettano il governo cinese, i media statali e gli account diplomatici come tali. Alcuni legislatori americani hanno chiesto di andare oltre, sostenendo che se Pechino bloccasse alcune piattaforme di social media, quelle stesse piattaforme non dovrebbero consentire ai funzionari del governo cinese di creare account.

CENSURA A DOPPIO BINARIO

Eppure i leader delle società tecnologiche statunitensi sembrano riluttanti a fare un passo del genere, o persino a controllare i contenuti di diplomatici stranieri e organi di stampa. Finora solo un paese ha deciso di combattere il fuoco con il fuoco. Dopo gli scontri al confine di giugno, l'India ha bloccato più di 200 app cinesi, tra cui WeChat e Weibo. Ma Nuova Delhi non può impedire ai funzionari cinesi di continuare a diffondere disinformazione su Twitter e Facebook all'interno del Paese. Ecco perché la mossa di Twitter e Facebook rischia di rappresentare l’ennesima dimostrazione di quanto la censura da parte di questi colossi del tech non sia tanto mossa da questioni etiche o morali ma più che altro da business e da convenienza propria. E poi ricevere lezioni morali da chi ha permesso lo scoppio dello scandalo di Cambridge Analitycs sembra una sorta di paradosso, oppure solo una questione di ipocrisia bella e buona.

lunedì 4 gennaio 2021

SHOPPING COMMUNITY LA NUOVA FRONTIERA DELL'ECOMMERCE

 

SOCIAL COMMERCE COSA’E’ E PERCHE’ STA AVENDO COSI SUCCESSO


Sembra ormai essere una certezza quella che il social commerce sia ormai diventata parte integrante all’interno dell’ecosistema dei social network. La combinazione vincente di social media e shopping sta diventando sempre più importante per marchi e rivenditori nell'e-commerce. Il social commerce è un tipo di vendita che si realizza direttamente nelle diverse piattaforme social. Al posto di usare le piattaforme per dirigere traffico al sito del brand, si vendono i prodotti direttamente alle persone attraverso i social. Il grande successo dei social come Facebook, Instagram, Pinterest, ha reso questi spazi web assai interessanti per tutte le aziende, sia come veicolo di promozione ed ora sempre più come veri e propri spazi per vendere direttamente i propri prodotti. Il social crea condivisione e community, che rappresentano il vero futuro del commercio, ed offrono alle aziende, proprio per la loro caratteristica di creare community intorno ad interessi comuni la possibilità di raggiungere velocemente un determinato target di consumatori e di fidelizzarlo in maniera economica e diretta..E le piattaforme di social media proprio per accrescere il loro “appeal” commerciale, stanno lavorando duramente per eliminare il divario tra la ricerca di prodotti sui social media e l'effettivo acquisto lì. Ed è per questo motivo che il social shopping sta cambiando il modo in cui guardiamo e interagiamo con i social media. Secondo dati recenti circa il 60% delle persone scopre prodotti su Instagram e il 78% degli americani usa Facebook per trovare nuovi prodotti e il 30% dei consumatori acquisterà nei prossimi mesi, tramite piattaforme di social media come Facebook, Instagram, Twitter o Snapchat. Le persone lasciano che i social media guidino le loro decisioni di acquisto e, per i marchi, è il luogo ideale per aumentare le vendite e portare consapevolezza del marchio. Ma è in Cina che il social commerce ha già compiuto la sua rivoluzione, considerando l’alta tecnologia raggiunta dal digitale in quel paese. In Cina, infatti, social commerce significa entrare in contatto con persone che condividono lo stesso interesse piuttosto che limitarsi ad acquistare un articolo. È un modo di coinvolgimento sociale, non solo una piattaforma per l'acquisto. Il futuro del commercio sociale sta in questa cosa precisa: diventerà una forma di impegno sociale, non solo un processo. Si tratta di riunire persone nelle comunità online piuttosto che spingerle ad acquistare prodotti sui social media. Ecco perché i social media e l'e-commerce vanno insieme e nemmeno i marchi di lusso possono ignorare questo fatto o aspettarsi di avere vendite online senza una strategia di social commerce dedicata.


LA SHOPPING COMMUNITY SOCIAL


Partendo dalla Cina e dalla sua famosissima Wechat, si può capire perché il futuro del commercio sarà nella condivisione e nella creazione di community shopping, che molto breve sarebbe gruppo d'acquisto, il cui scopo è ottenere innanzitutto un maggior potere d'acquisto. L'app WeChat ha creato un ecosistema basato sulla comunicazione in cui i venditori incontrano i clienti creando un rapporto di fiducia che è molto diverso dal classico business di e-commerce. Questa è la principale differenza tra Facebook e WeChat. All'interno di WeChat, i marchi possono presentare qualsiasi cosa, dai contenuti, ai metodi di pagamento e alle interazioni sociali allo streaming live, all'esperienza di e-commerce personalizzata e al servizio clienti. In questo modo, WeChat può fornire un'esperienza più personalizzata e personale per i potenziali clienti. Il fulcro del commercio saranno, infatti, molto probabilmente, le comunità di marchi online basate sulla fiducia e sui valori reciproci tra il marchio ei clienti. Il futuro del social shopping risiede nell'ibrido tra social media, social commerce e comunità di marchi online. Ma cos'è una brand community? Una brand community è un gruppo di clienti che investe in un marchio oltre il prodotto: consente alle aziende di rafforzare le relazioni con i clienti e di coinvolgerli nella co-creazione del marchio. Molti spono gli esempi di aziende che hanno costruito sulla loro “comunità” e sulla fedeltà al loro marchio il loro successo, basti pensare ad Apple, Nike, Lego, Gucci. Il cliente diventa un vero e proprio brand ambassador dell’azienda e dei suoi prodotti, creando una promozione molto piu economica che quella tradizionale e molto più efficace.


COME CREARE UNA COMMUNITY ONLINE VIVACE E DURATURA?

Come creare una Brand Community? Il social commerce deve diventare un intero sistema in cui le persone non si limitano a fare acquisti o "perseguitano" le persone sui social media. L'attenzione dovrebbe spostarsi sulle comunità di marchi online che raccolgono persone specifiche e si concentrano su prodotti specifici che soddisfano i loro desideri, interessi e bisogni. Un ottimo esempio di cosa vuol dire un brand community è la comunità online di Procter & Gamble che si concentra sullo stile di vita, le relazioni e la cultura incentrate sulle donne. In questo modo, aggiungono valore ai loro contenuti per il loro pubblico di destinazione. Un ottimo modo per stimolare il coinvolgimento è includere i membri dei social media nel processo di creazione dei contenuti consentendo loro di suggerire argomenti o presentarli nei tuoi contenuti. Ciò contribuirà a incoraggiare le connessioni tra i membri. La community poi va continuamente alimentata con nuove interazioni legate ai commenti sugli acquisti o alla utilità di un determinato prodotto. Il passaparola è da sempre la migliore forma di marketing che esiste. Creare una community fedele al marchio che diventa essa stessa portatrice dei valori dell’azienda, perché si sente parte del progetto è la base per creare una comunità che veicola attraverso i suoi contatti, creando l’effetto moltiplicatore il brand e i prodotti o servizi di una azienda. Ecco perché allora il network marketing e la condivisione che essa comporta possono essere un valore aggiunto se uniti con le grandi opportunità che il digitale offre per sviluppare questa forma di commercio. Di tutto questo e delle grandi opportunità che puo regalare il digitale per la social economy e il network marketing se ne parlerà in un grande evento, previsto il prossimo 9 Gennaio on line ( https://www.galaxyproject.global/ ), dal titolo molto evocativo " Digital Network marketing the next level" tre ore di discussioni e approfondimenti con il vero guru internazionale di questa tecnica di vendita Eric Worre, da due anni assente dal palcoscenico italiano e con la partecipazione di grandi ospiti come il formatore internazionale Daniele Viganò e Luigi Maisto, imprenditore nel settore della social economy e con una piattaforma di shopping comunity in blockchain.

NASCE IL PRIMO KIT ANTISOFISTICAZIONE OLIO EXTRAVERGINE

  Nasce il primo kit domestico per scoprire difetti, frodi e contraffazione di uno degli alimenti principi sulla tavola degli italiani, l’ol...